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di Silverio Zanobetti
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Questo lavoro sul concetto-immagine di “rivoluzione” è denso, compatto, sobrio come gli ultimi lavori di Aldo Pardi. Un testo in cui ritrovo la sobrietà militante e rigorosa che già avevo trovato nei libri precedenti. Deleuze, a cui è dedicato un capitolo, parla non a caso di sperimentazione come condizione del vero pensare ed invita sempre alla sobrietà nella sperimentazione e questo testo ne è un esempio di una potenza vertiginosa.
Al di là di certe posizioni discutibili (ma ampiamente motivate) per la loro durezza (su Gramsci, ad esempio) la coerenza e il rigore teorico-politico con cui Pardi persegue la sua ricerca è evidente laddove si colga la continuità con i lavori precedenti. Ruolo essenziale tornano ad avere i concetti di “produzione” e “conflitto” che «sono la porta per arrivare a codificare un concetto di “trasformazione” capace di rendere la produzione di teoria un’esperienza di liberazione»[1].
Una serie di filosofi e letterati sono investigati nei loro meccanismi: Marx, Nietzsche, Althusser, Gramsci, Korsch, Deleuze, Pasolini. Pardi affronta questi autori nello stesso senso in cui affronta Deleuze: non per restituirne un’interpretazione puntuale, bensì per darne una lettura che è subito presa di posizione politica sulla teoria. Il libro è consigliato a chi non studia distinguendo storia della filosofia e filosofia, a chi pensa che si faccia filosofia a partire da dei problemi e che questi ultimi esigano delle alleanze. Di fronte ai filosofi che affronta, Pardi agisce come un artigiano e durante la lettura si percepisce l’abile fermezza con cui la mano è a contatto con i concetti, con gli ingranaggi più profondi.
«La teoria è una fabbrica, sistema di spinte che mette al lavoro il senso e la parola. Torchi, turbine e forni ne plasmano le forme, catena di montaggio mossa dai poteri attivi al suo interno. Nebulosa in apparenza evanescente, le macchine del concetto ne costituiscono il corpo armato, facendo del pensiero il frutto di una tangibile, potente azione di dominanza»[2].
Insomma, Pardi affronta questi pensatori nella consapevolezza che il pensare non è più una questione di sguardo essenziale, bensì «l’idea è azione: pratica strategica, politica di costruzione di corpi concettuali».
Pardi non spiega le teorie di Hegel, Kant, Althusser, Nietzsche, non le rappresenta (come i giornalisti fanno con la presunta crisi economica attuale) ma le piega al suo specifico percorso teorico-politico, agisce nel loro pensiero come una forza eversiva, le smonta mostrando la tramatura e l’evoluzione del pensiero filosofico occidentale; uno dei capisaldi della ricerca di Pardi è di considerare il pensare, parlare, sentire come «atti politici, lavoro sociale, agone dello scontro per la supremazia, al pari delle pratiche mercantili o giuridico-amministrative». Seguendo Althusser, ad esempio, la filosofia diventa “materia” di teoria. I concetti, le idee, i simboli, i processi di astrazione, gli svolgimenti dimostrativi, le classificazioni «non sono frutto di una spontanea attività creatrice», la filosofia è consegnata all’immanenza, senza statuto privilegiato rispetto ad altri ambiti d’esistenza. La filosofia è un lavoro, gode di una costituzione pragmatica; «un sistema concettuale è un organismo macchinico, una motrice teoricamente produttiva mossa da differenziali di potere».
Quello di Pardi è un viaggio tra varie teorie e politiche rivoluzionarie del ’900 che si sono dimostrate sterili perché «non funziona più affrontare, teoricamente e politicamente, l’analisi della società e dei suoi rivolgimenti in termini soggettivi, umanistici o dialettici». D’altronde, molte delle filosofie presunte rivoluzionarie hanno lavorato reattivamente in modo conservativo di fronte agli impulsi provenienti dall’arte o dalla scienza. Lo slancio militante di certe teorie che si sono rifatte a Marx sono compromesse con il potere che pensavano di combattere e, se non si è consapevoli di questa contaminazione, si va incontro, come nel ’900, alla disfatta teorica e alla sconfitta politica che poi si paga col sangue.
Un esempio di un marxismo che opera per l’avversario è quella di Karl Korsch, «assoggettato al controllo dispositivo di macchine di pensiero avversarie». Si tratta di un’ingenuità, non perdonabile in quanto, per Pardi, ingenuità ha lo stesso senso di “passività”.
Si tratterà allora di praticare teoria e manovrare sul fronte del conflitto con alcune forze veramente rivoluzionarie: l’immanenza, la differenza, la relazione, la singolarità per uscire finalmente dal «quadrilatero della totalizzazione», per «disgregare la trascendenza e l’idea di “negazione” che la sostiene e affermare la scissione, mezzo con cui rompere il processo di totalizzazione». Questo tipo di ricerca teorica trova in Deleuze e Derrida i suoi tentativi pionieristici e Pardi si mette sulla loro scia cercando di costruire un pensiero dalla valenza emancipatrice, una pratica teorica fatta da scissioni, ascolto, circolarità e socialità, un pensiero che generi di nuovo comune contro quella millenaria strategia di conquista, campagna imperiale nel pensiero condotta da eccezionali intelligenze strategiche: Platone, Aristotele, Agostino, Hobbes, Descartes e Hegel. Con quest’ultimo “bisogno”, “lavoro”, “consumo”, sotto la denominazione di “società civile”, agiscono la pragmatica del potere.
La crisi economica di questi ultimi anni è sezionata e anatomizzata, laddove i giornalisti si sono sempre limitati a rappresentarla in visioni apocalittiche, fatale autodistruzione, irrazionale follia, «frutto malato degli impulsi selvaggi di un gruppo ristretto di entità sfrenate incapaci di controllare l’immenso potere da esse detenuto» a cui si dovrebbe contrapporre, secondo lo schema di questo mito giornalistico, lo Stato liberal-democratico, figura distaccata, austera, dotata della forza della purezza, una medicina-Stato che dovrebbe curare la società “malata” (magari dell’irrazionalità dei rapporti tra agenti economici…) attraverso un modelli di democrazia concertativa che, in realtà, «è stato il regime istituzionale che meglio ha risposto» ad un certo posizionamento del capitale dopo la seconda guerra mondiale.
La crisi è stata raccontata come «una perturbazione di un organismo ordinato», perturbante rispetto «all’andamento e alla conformazione considerati normali». E sul tema della normalità e del patologico Pardi usa, giustamente, gli attrezzi di Canguilhem (poi mediati da Foucault nelle sue opere epistemologiche) per arrivare a concludere che quella chiamata crisi non è altro che un aggiustamento sistemico del capitalismo («immane processo di ristrutturazione che sta ridefinendo, rispetto alla fase precedente, componenti, modalità di interazione e meccanismi di governo capitalistici»), capitalismo che funziona normalmente per “disfunzioni interne”, disfunzioni che rappresentano l’ossigeno e il metabolismo che ne muove l’ingranaggio e, quindi, se nessuna “crisi” si è prodotta, il mondo dominato dal valore non è alla sua apocalisse. Nel configurare questo aggiustamento sistemico, Pardi produce la migliore cartografia dei conflitti del ’900 che abbia mai letto, proseguendo il lavoro di Deleuze sulla “società del controllo” e sulle imprese, portando avanti quel discorso deleuziano sostituendo all’impresa (che ha nel servizio vendite la sua “anima”) la banca come «mozzo che muove le diversioni aggressive dei capitali in trasmigrazione» in quanto è «su impulso e sotto diretto comando del capitale finanziario» che «l’industria definisce strumenti organizzativi, volumi e strategie». Le Vertigini del titolo si riferiscono proprio alla nuova egemonia di parti capitalistiche frattali, “in grado di seguire”, per la loro immateriale leggerezza e la loro vertiginosa trasferibilità, «le correnti convulse del mercato in cui il controllo e la deterrenza divengono armi decisive».
Parallelamente alla descrizione di questo aggiustamento, Pardi ricorda in più occasioni come il capitalismo non sorga per necessità interna dal seno stesso del feudalesimo e che «la sua genealogia risponde alle alleanze, ai combattimenti, alle posizioni tattiche assunte per disporsi come forza ed occupare lo spazio dell’organizzazione della società affermando il proprio modo di produzione» (ed è qui che Deleuze si inserisce nello stesso fronte teorico di Marx in contrapposizione al “crocianesimo hegeliano” della vulgata moltitudinaria contemporanea) in quanto «ogni sistema sociale si edifica su conflitti» e «un complesso si fissa per stratificazione avversativa, a causa dell’investimento guerresco tramite cui vettori sociali ostili cozzano decidendo così un primato». Insomma, «la produzione di società è lotta intestina e ovunque sussistono conflitti perché dappertutto si dà produzione tant’è che il lavoro teorico tratta materiale speculativi» che «non sono dati a priori, sono effetti a loro volta prodotto di produzione». Pardi, seguendo la lezione di Deleuze, spiega i criteri che distinguono le macchine liberatrici dalle macchine ad assiomatica: le prime sono macchine a-dispotiche che producono liberazione conservando sempre la loro condizione di singolarità, sempre attive in processi di socializzazione “molecolari”. «Forze minori che non si totalizzano mai, ma veicolano conflitto per continuare a produrre società».
Mi sembrano particolarmente preziose alcune critiche ad una certa vulgata deleuziana, anche italiana, e il fraintendimento di cui sarebbe vittima riguardo il concetto di “desiderio” in Deleuze. Senza entrare nel merito (il lettore interessato troverà alcune note interessanti di approfondimento) credo che gli studi su Deleuze si gioverebbero di queste indicazioni che, contengono, a mio avviso, una più efficace “pratica strategica” contro un capitalismo come «un insieme che produce piacere attraverso lo straripamento degli impulsi suscitati dalle direttrici montanti del valore».
Infine, anche la letteratura, la poesia e l’arte hanno un ruolo importante in questo testo. Pardi evidenzia (a partire dagli smascheramenti di Marx e Freud) come esse siano pratiche storiche concrete, come i segni non siano semplici parti dell’immaginario («i segni si toccano, si legano, si separano, lottano e producono insieme»), bensì «figure, componenti di una falda della produzione sociale avente specifica struttura e particolari filiere di lavorazione». Insomma, «tra il segno e le condotte empiriche non c’è differenza di natura in quanto entrambi sono concatenamenti pragmatici che producono organismi sociali, corpi produttori di flussi sul tessuto connettivo formato dalle relazioni tra aggregati».
NOTE
[1] A. Pardi, Campo di battaglia, Teoria, produzione e conflitto in Louis Althusser, Ombre Corte, Verona, 2008 p. 17.
[2] A. Pardi, Campo di battaglia. Teoria, produzione e conflitto in Louis Althusser, cit., p. 187.
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INDICE
1. Produzione, crisi e trasformazione. Althusser e la battaglia dei segni
2. Apocalissi mancate. Del mito della “crisi” e i suoi paradossi
3. Che cosa significa “rivoluzione”? Althusser e Gramsci.
4. Senza vista né udito. Karl Korsch e la rivoluzione tedesca (1918-1924)
5. Marx, l’alleato. Deleuze fuori dal marxismo, al fianco di Marx
6. Il dolore del dire. Pasolini e la poetica delle stimmate
7. Macchine da poesia. Sulla nuova poesia italiana
Postfazione. Fronte interno. Tattiche del segno “me stesso”.
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NOTA SULL’AUTORE
ALDO PARDI (Perugia 1969) vive a Parigi ed insegna presso il Dipartimento di italianistica dell’Université de Lille III. Traduttore e saggista, ha curato, tra le altre, la traduzione di: Sulla filosofia, di L. Althusser (Milano, Unicopli 2001), Sui concetti fondamentali del materialismo storico, di E. Balibar (in Leggere il Capitale, a cura di M. Turchetto, Milano, Mimesis 2006), Che cosa può un corpo. Lezioni su
Spinoza, di G. Deleuze (Verona, Ombre Corte, 2007), Discorso sul colonialismo, di A. Cèsar (Verona, Ombre Corte 2010), Scritti su Spinosa di A. Mathéron (Milano, Mimesis-Ghibli,2009), Giorni di lettura, di M. Proust (Firenze, Clinamen, 2014). Ha pubblicato: Il sintomo e la rivoluzione. Georges Politzer crocevia tra due epoche (Roma, Manifestolibri 2007), Campo di battaglia. Produzione, trasformazione e conflitto in Louis Althusser (Verona, Ombre Corte, 2008), Dieci colpi di martello. Per una filosofia politica del conflitto(Verona, Ombre Corte, 2009).