Il divertissement più praticato dai lettori di romanzi distopici è individuare quante e quali intuizioni presenti nei loro libri di riferimento siano poi diventate spietate realtà. È un gioco dall’esito scontato: in un volume che ha come tema principale la delineazione di un possibile futuro, è naturale che alcune previsioni si rivelino esatte e altre prendano clamorosi abbagli. Chissà perché, tutti si soffermano sui successi mentre danno la colpa di vaticini sbagliati al clima culturale, sociale e politico del tempo che rendeva impossibile le previsioni delle tortuosità della Storia. Da qui si è sviluppata una strana tendenza, quella di misurare il valore di un’opera del genere da tale capacità di previsione piuttosto che dal puro esito letterario. Si prenda “Il mondo nuovo” (“Brave New World”) di Aldous Huxley da noi letto nella collana Oscar Classici Moderni della Mondadori con la traduzione di Lorenzo Gigli. In questa edizione al romanzo vero e proprio si accompagna un’appendice saggistica (“Ritorno al mondo nuovo” tradotto da Luciano Bianciardi) che lo stesso scrittore inglese ritenne necessaria alla comprensione dei temi principali del suo capolavoro narrativo. Precisiamo subito che a noi, dell’Huxley teorico, interessa poco per due motivi principali. In primis, poiché ci rifacciamo alla tesi che la bellezza della narrativa consista proprio nella sua forma, che è quella di saper costruire dietro lo scheletro di una storia tutta una serie di ideologie, visioni, argomentazioni che si spiegano con il loro puro intrecciarsi. Crediamo cioè che il lettore sia abbastanza smaliziato da comprendere gli intenti dello scrittore di fiction senza che egli debba suggerirglieli. In secondo luogo, l’Huxley filosofo si limita cerimoniosamente a riproporre gli stessi interrogativi del romanzo in forma più distesa, risultando così sia inconcludente che deludente. “Il mondo nuovo” cita fin dal titolo quel Shakespeare che in forma surrettizia percorre tutta la seconda parte della vicenda ivi narrata, poiché riprende un verso pronunciato da Miranda ne “La tempesta”. I poliedrici interessi dello scrittore inglese, rampollo di una famiglia che al suo interno annoverava premi Nobel e scienziati di fama mondiale, trovano dispiegamento in un romanzo fin troppo compatto e amalgamato. La storia è suddivisa, come già anticipato, abbastanza rigidamente in due spezzoni, tra loro coordinati. Il primo segmento è quello che possiede in maggior misura i tratti della fantascienza distopica. In un futuro sapientemente non troppo vicino da far diffidare né troppo lontano da passare inosservato, la società ha iniettato la virale etica capitalistica nei propri gangli. Il razionalismo produttivistico si è cioè installato nel cuore della produzione biologica degli individui e della loro democrazia. In tale contesto, Henry Ford ha soppiantato il Dio cristiano perfino nel linguaggio e nella datazione cronologica. L’anno zero della nuova era non è più la nascita di Cristo ma è rappresentato dall’immissione sul mercato del modello T della Ford. Huxley non si sforza più di tanto a trovare uno spunto narrativo per la descrizione di questa nuova società. Il romanzo infatti ci porta subito nel cuore del Centro di incubazione e di condizionamento di Londra Centrale, dove il Direttore spiega a un gruppo di studenti le meraviglie della programmazione genetica. Questa prima parte del romanzo è la più riuscita. Le fosche fantasie dello scrittore del Surrey riescono ad impressionare anche a distanza di ottant’anni per la loro glaciale preveggenza di possibili derive totalitarie. Come afferma acutamente lo stesso Huxley in “Superorganizzazione”, uno dei saggi de “Ritorno al mondo nuovo”, «Per quanto si sforzino, gli uomini non possono creare un organismo sociale. Possono creare solamente un’organizzazione. Se tentano di creare un organismo, finiranno per mettere in piedi un dispotismo totalitario e basta».
Discende proprio da questo anelito, comprensibile ma pericoloso, il rischio maggiore di un’omologazione che annulli le specificità dell’individuo. La condanna di un siffatto scenario, che in nome di una capziosa vittoria della società sull’individuo costruisce una società automatizzata, avviene in maniera limpida già ne “Il mondo nuovo” ed è denunciato con esempi più pragmatici anche nel successivo “Ritorno al mondo nuovo”. Il romanzo immagina che il processo della catena di montaggio, con la sua parcellizzazione tecnica, sia trasposto in maniera disumana anche agli individui. L’embrione è trattato come una merce industriale, sottoposto a una pianificata programmazione che ne migliori o peggiori alcuni caratteri a seconda degli intenti. La necessaria stratificazione in classi della società trova nel testo una spiegazione alquanto superflua che ne svilisce l’invenzione narrativa. L’idea che ad alcuni embrioni, durante il loro trattamento, sia tolto l’ossigeno per generare persone con poca materia cerebrale («Più bassa è la casta e meno ossigeno si dà»), sarebbe stata già sufficientemente allarmante senza la prolusione teorica che la giustifichi. I vari condizionamenti ambientali risultano molto crudi a causa di un concetto fuorviante di scientificità che ha eliminato il libero arbitrio dalle vite degli individui. È la possibilità di scelta che viene sistematicamente perseguita come uno dei mali più esiziali al controllo dell’umanità. Pur soffrendo di una certa rozzezza metaforica, la descrizione dei trattamenti a cui sono sottoposti gli embrioni per condizionarli ad amare il caldo o il freddo, il movimento o la staticità, a seconda delle mansioni cui verranno destinati, è efficace. Dopo aver descritto questi futuristici interventi di manipolazione genetica, Huxley passa a immaginare forme di condizionamento ancora più pervasive che vengono somministrate ai bambini. Gli incubi distopici dello scrittore si soffermano particolarmente sui metodi pavloviani con cui viene insegnato agli infanti a rifuggire dalla bellezza dei libri e della botanica. Inoltre, tramite slogan fatti ascoltare loro durante il sonno (nel romanzo questa tecnica viene chiamata “ipnopedia”), vengono impartite loro lezioni di Coscienza di Classe con cui si insegna ad amare la propria casta di appartenenza e a diffidare delle altre. Perfino il sesso viene reificato fin dalla più tenera età attraverso giochi perversi e si introietta loro che esso consista in un semplice appagamento sensuale che si deve praticare con molte persone, in luogo di una esclusività da cui potrebbero scaturire pericolosi sentimenti. La descrizione del mirabile mondo nuovo, che ha saputo sconfiggere guerre e malattie a prezzo di tale uniformità, continua con l’introduzione di quelli che saranno alcuni dei protagonisti della vicenda. Huxley prosegue la sua critica dando loro cognomi di filosofi e teorici celebri che predicavano la vittoria delle masse sull’individuo: Bakunin, Marx, Lenin(a). D’altronde, non mancano nemmeno più prevedibili nomi di dittatori e esponenti del pensiero liberista, ma si può ritenere che, a conti fatti, la sferzata riservata a certi intoccabili santini del pensiero progressista sia la più felice per la sua carica di novità. Purtroppo è proprio da qui che alcune cose nel romanzo cominciano a stridere.
I personaggi assumono la funzione di armi di critica diretta e non riescono a pervenire a nessuna connotazione psicologica. Essi sono insomma ridotti a mezzi di cui lo scrittore si serve per la propria propaganda. Ognuno svolge un ruolo funzionale allo schema. Non c’è nemmeno un personaggio di contorno, qualcuno che possa sviare per un breve lasso di tempo l’attenzione del lettore. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un dettagliatissimo quadro clinico che non può dare spazio all’inaspettato. I personaggi non hanno, per usare una desueta espressione critica, “anima”. Sono propedeutici alla tesi principale del libro. Perfino l’ambiguità di Bernardo Marx e di Helmholtz Watson, le uniche due personalità a cui è concessa rispettivamente un’involuzione e un’evoluzione psicologica, possiede il carattere definito di una programmazione a tavolino. L’intera seconda parte del romanzo, che vede l’innalzamento a protagonista del Selvaggio John, soffre in maniera ancora più marcata del proprio carattere di ribellione a questo spaventevole sistema immaginato. Si può ragionevolmente supporre che sia stata l’urgenza della denuncia a deficitare la narratività dell’opera. Questa volontà si desume anche dall’accavallamento di temi e situazioni che Huxley mette in atto in un romanzo che ha un’estensione non molto elevata. Il pàthos del rapporto tra Linda e John, ad esempio, che poteva trovare più sviluppo drammatico, viene bruciato dall’insistenza deleteria data all’amore del Selvaggio per Lenina, che raggiunge gli esiti meno convincenti nel capitolo che vede lo scontro tra il romanticismo antiquato di John contrapposto alla sessualità volgare della ragazza. Ma ad Huxley, evidentemente, ancora una volta interessava mostrare l’impossibilità di un’unione tra mondi così distanti tra loro piuttosto che un approfondimento introspettivo. La parte che riflette maggiormente la necessità di questo richiamo generazionale verso i pericoli di un distolto concetto di progresso è il dialogo tra il Governatore Mustapha Mond e John. Il capitolo, filosoficamente, funziona benissimo poiché mostra il cinico impianto teorico che sorregge l’architettura del mondo nuovo. Queste sono le pagine più pregne dell’intero romanzo, ove la rinuncia alla libertà e alla bellezza della grande arte, trovano toni che trasmettono la giusta paura. Huxley traduce però questi nobili aneliti in un didascalismo più saggistico che narrativo. L’andamento di questo capitolo è infatti piatto e scontato. Da questo momento in poi la vicenda si incanala in una strada senza via d’uscita. A John, e con lui ai lettori suoi contemporanei, lo scrittore inglese non concede alcuna possibilità. Contro questa società così massificata, dove «ognuno appartiene a tutti gli altri», il singolo non può che soccombere. Effimera è la ribellione, vano l’isolamento. L’unica possibilità è penzolare suicidi attaccati a una corda. Il finale del libro ritrova così la grandiosità degli inizi. Con il mondo nuovo non si può scendere a compromessi, della sua terribile disumanità nulla si può salvare. L’efficienza di un’organizzazione non può oltrepassare certi limiti democratici, pena l’annientamento della libertà. “Il mondo nuovo”, come è avvenuto nel corso di questa recensione, si può attaccare sul piano letterario. Il romanzo di Aldous Huxley resta però un capolavoro del Novecento per aver saputo paventare con innegabile efficacia la direzione anti-libertaria che una tecnologia disgiunta dai valori fondamentali dell’uomo può comportare.