Amici latinisti bentornati. Dopo Non plus ultra questa rubrica nella rubrica, che potremmo chiamare ‘i grandi classici de l’ora di latino’, torna a rischiarare col faro della cultura la selva oscura dell’ignoranza che ci circonda, offrendovi l’opportunità di capire cosa si nasconde dietro la celeberrima espressione Alea iacta est di Giulio Cesare. Per quanti volessero informazioni sull’altrettanto famosa Dada tracta est di Simona Ventura si rivolgano all’internet e non a questa rubrica, che noi le avremmo dato un bel 4. Con la penna rossa chiaramente.
Come ho già avuto modo di dire in precedenza in una fortunata formulazione di quelle che ti capitano una volta nella vita, è proprio dove dimora l’ovvietà che s’insinua l’ignoranza, ed è questo anche il caso di Alea iacta est, che ci permetterà addirittura di scomodare la filologia, modestamente il mio pane. Ma andiamo con calma.
Alea iacta est è la famosa frase attribuita a Giulio Cesare, da lui pronunciata la notte del 10 gennaio del 49 a.C. presso il fiume Rubicone (in Romagna) quando varca i confini dell’Italia (il nord italia non era ancora italia, ma una provincia, la Gallia Cisalpina) alla testa del suo esercito di ritorno dalla conquista della Gallia in trasgressione alla legge, ponendosi come nemico di Roma e dando inizio alla seconda guerra civile (la prima era stata nell’82 a.C. con protagonista Silla).
L’espressione, propriamente nella sequenza iacta est alea, è tramandata da Svetonio, autore del I sec. d.C. che scrive un’opera storico-biografica sulle vite dei primi dodici imperatori, più vicina all’intervista speciale della settimana di Vero che a un volume di Indro Montanelli.
Questa espressione è comunemente (e correttamente) tradotta in italiano con «il dado è tratto» e viene correntemente usata a indicare il raggiungimento di un punto di non ritorno, del sussistere di nuove condizioni incontrovertibili e imprevedibili (da qui l’aggettivo italiano «aleatorio») con possibili risvolti traumatici. Tuttavia Svetonio non è l’unico a raccontarci questo aneddoto, ma ce ne parla anche il suo contemporaneo greco Plutarco, autore – tra le altre cose – di una serie di biografie di personaggi illustri in cui sono messi a confronto, di solito, un personaggio greco e uno romano eguagliabili (Vite Parallele), ad esempio, nel nostro caso, la Vita di Alessandro Magno e la Vita di Cesare. In una di queste (la Vita di Pompeo), Plutarco ci dice questo:
Egli [Cesare] dichiarò in greco ( Ἑλληνιστὶ) a gran voce a coloro che erano presenti: «sia lanciato il dado» (Ἀνερρίφθω κύβος) e condusse l’esercito attraverso [il Rubicone]
La storia, come vedete, è un po’ diversa. La fatidica frase Cesare l’avrebbe pronunciata in greco e, inoltre, essa non sarebbe stata all’indicativo (est) ma all’imperativo (Ἀνερρίφθω [anerrìphtho] è imperativo). Inoltre, giusto per aggiungere altra carne al fuoco, la frase non sarebbe stata un’invenzione di Cesare sul momento, di quelle che dici «ah m’è venuta la frase giusta al momento giusto ora posso stare zitto per sempre» (cfr. me supra), bensì una citazione di uno dei suoi autori preferiti, il commediografo greco Menandro, che l’avrebbe usata nella sua opera La Flautista.
Per sanare l’incongruenza tra le due versioni di Svetonio e di Plutarco la filologia ha elaborato una soluzione che potesse metterle d’accordo. E il risultato quale sarebbe? Che alea iacta est di Svetonio (regia rullo di tamburi grazie) sarebbe un errore. Precisamente un errore dovuto a una semplificazione della scrittura, in termini tecnici aplografia.
Il testo latino originale sarebbe stato: iacta alea ESTO (che è imperativo) e la traduzione uguale a quella del corrispettivo greco, dunque non «il dado è tratto» ma «sia lanciato il dado!». E così salviamo capra e cavoli. Ah che idea geniale.
Una volta chiarito il significato autentico dell’espressione sarà più facile comprendere il contesto storico in cui essa fu pronunciata. Cesare arrivava da anni di vita bellica transalpina, le famose guerre galliche (58-50 a.C.), con cui ampliò notevolmente il dominio di Roma, includendovi la nuova provincia della Gallia, pressoché corrispondente all’attuale Francia. Forte di queste sue nuove conquiste e di un grande esercito a lui fedele dopo anni di condivisione della vita da accampamento, Cesare decide di rientrare a casa. Il Senato è intimorito dal suo potere e perciò gli ordina di sciogliere le proprie legioni prima di varcare il confine dell’Italia, il fiume Rubicone appunto. Cesare non ci sta, lancia il fantomatico dado e viola la legge, divenendo ufficialmente hostis publicus (nemico dello Stato).
Qui ha inizio quella che abbiamo già menzionato in precedenza come la seconda guerra civile, o guerra tra Cesare e Pompeo (49-45 a. C.). In essa si vedono contrapposti da una parte la fazione di Cesare, rappresentante il partito dei cosiddetti populares, che potremmo definire con termine improprio «progressisti», dall’altra Pompeo supportato dal Senato, i cosiddetti optimates, sempre impropriamente parafrasabili come «conservatori». La guerra si concluse a favore di Cesare che eliminò non solo Pompeo, ma anche tutti i più illustri membri della fazione avversazia, combattendo qua e là per il Mediterraneo dall’Egitto (con annessa ripassatina a Cleopatra) alla Spagna. Raggiunto il vertice del potere Cesare si fece investire della più autorevole carica consentita dalla repubblica romana, la dittatura, che poteva durare al massimo sei mesi. Beh lui l’avrà a vita, cosa che gli servirà a ben poco, visto che alle celeberrime idi di marzo del 44 a.C. fu vittima di una congiura in Senato. Al di là di questo epilogo funesto, l’azione di Cesare aveva incontrovertibilmente cambiato il corso della storia, dimostrandosi assai più lungimirante delle speculazioni politiche dei suoi contemporanei, tanto dei suoi sostenitori (Sallustio), quanto degli oppositori (Cicerone). La prassi vince sulla teoria. Cesare aveva capito che la politica non poteva essere più fatta secondo le vecchie categorie, ma si fondava su due nuovi aspetti: la fedeltà dell’esercito non allo Stato, ma al proprio generale (in latino appunto imperator), e la morte della vecchia logica della città-stato dominante (Roma), in favore della nuova realtà dell’Italia.
La repubblica romana è morta e dalle sue ceneri sta nascendo l’impero. Salvete et valete!