In questa silloge di Alessandra Paganardi, vincitrice del “Premio Astrolabio” 2008, la parola poetica coincide con l’approssimarsi dello sguardo e del pensiero alla realtà circostante per coglierne il moto segreto, quel destino a cui è chiamata e che in qualche modo ci chiama, in quanto noi stessi ne facciamo parte.
Ciò nasce da un’esigenza di consapevolezza, da un desiderio di conoscenza che scaturisce non solo dall’interrogazione del limite e della finitezza, ma anche dalla volontà (o dalla necessità) di intravederne il superamento, in una dimensione in cui luce e ombra, presenza e assenza, tutto e nulla non sono in contrapposizione tra loro, ma spesso si scambiano le parti o si confondono. E ciò avviene grazie ad una riflessione sulla temporalità, tema sotterraneo ma di rilevante importanza per la comprensione dell’intera silloge, la quale si presenta suddivisa nei due poemetti intitolati Città di mezzo e Museo e parole.
Nel primo una città di mare e notturna è colta nelle sue segrete intermittenze, nel suo esserci in modo concreto e sospeso insieme, quasi fosse ogni volta sul punto di sparire per poi ritornare diversa e uguale; una città sempre al confine ma proprio per questo anche mutevole, oltre la frontiera apparente, emblema di trasformazione e movimento, che Alessandra Paganardi incontra ed interroga immaginando un confine che “non divide nessuno, dove un ramo / appartiene a due mondi – a tutti i mondi / che non hai visto mai”. C’è un’aspirazione alla totalità, che è soprattutto scoperta della circolarità del tempo, tensione verso un oltre che ritorna, in cui la perdita e l’annullamento rivelano la precarietà del qui e ora, ma anche il loro incessante trapassare:” Così nulla si ferma – ogni stagione / apre e richiude il tempo. / E’ la tua specie” e la natura “Lascia tutto diverso, / trova e trasforma – tutto il mondo è suo“. Ciò non significa distacco. Al contrario nei nei versi essenziali e delicati di questa silloge è presente un’attenzione costante al nostro essere nel mondo, al nostro essere malinconici nella perdita e trepidanti nella promessa e nell’attesa, senza però alcuna illusione, nella lucida consapevolezza che tutto è destinato a passare ma anche che “nulla si perde se soltanto smetti di trattenerlo”.
Nel secondo poemetto Alessandra Paganardi incontra realtà più intime e private, stanze, oggetti, ricordi che però testimoniano, più che un vissuto, un’assenza, un “grumo” di pensieri e parole che non trovano o non vogliono trovare una precisa collocazione. Si tratta di un luogo che pare senza luogo, un museo-fantasma, forse, la cui appartennza sembra continuamente sfuggire, in quanto invaso dal tempo, ma da un tempo altro, ossimorico, sovratemporale, dal suo “correre via senza di noi“. Ed ecco ancora rivelarsi la necessità del pensiero e della conoscenza, che sono tutt’uno col dettato poetico, con la sfida della parola a farsi nome, a dire ciò che altrimenti sparirebbe per sempre dalle stanze di quello strano museo destinato a farsi scrittura.
Alessandra Paganardi con questo libro ci offre un dono di sobrietà e di cura verso una parola capace di restare sulla pagina come voce che interpella la verità e la ricerca oltre l’apparenza.
Mauro Germani
da CITTA’ DI MEZZO
II
La notte è una città da attraversare
con i suoi viaggi, con i suoi passaggi
a livello che tagliano le case.
Immaginarsi là dove il confine
non divide nessuno, dove un ramo
appartiene a due mondi – a tutti i mondi
che non hai visto mai. Ripetere
con calma la ferita, solamente
per saperla nella bambagia cruda
delle mimose bruciate da aprile -
un calice il mattino della cena.
V
La natura si diverte a giocare
al telegrafo senza fili.
Lascia tutto diverso,
trova e trasforma – tutto il mondo è suo.
Com’è rassicurante questa serra
a cielo aperto, questo museo di fiori.
Eppure senti che l’acqua non basta
le vene artificiali sono chiuse
da un veleno più denso. Torneranno
a sorridere i bulbi del giardino
quando saranno sdegnosi di sole
quando saranno per sempre.
VI
Soltanto ciò che è dato sarà tolto.
La terra al mare, la radice invadente
allo stelo. Il dolore al icordo.
Una promessa è solo una scommessa
con il vestito dei giorni feriali
e la firma degli occhi.
E’ una zattera d’aria
non si sa chi la lancerà per primo
o chi da solo l’aspettava, lenta
come una nave lontana.
Soltanto ciò che è nato si può iscrivere
al catasto sbiadito del rimpianto.
VII
Dal tetto si può scendere soltanto.
Dal tetto. Come topi
che cercano le fogne e poi vi muoiono
per troppa vita, per troppa città.
Ritrovarla nel clacson da arrotino
che sale a raccontare esatta l’ora
a chi è nascosto in mezzo ai panni stesi.
Non si può più volare in questo odore
che brucia le narici come ghiaccio
sopra terrazze di nessuno. Scendere
sempre più giù, portando sulle spalle
il carbone pesante della festa.
da MUSEO E PAROLE
VIII
Sentirsi grumo – ricordare è questo
sapere che quel giorno, che a quell’ora
eravamo di là nell’altra stanza
per una distrazione. Non pensarci
la gente vuole stare in santa pace
sentire le campane sempre in festa
come fossero sue. Taglia la voce
reciderai la gola dei ricordi
come scremare un latte troppo pieno
come sbucciare una mandorla amara.
IX
Ma non è chiacchierare con il foglio
fingendoselo amico. E’ revocare
senza voce la parola sospesa.
Tornare nella stanza ancora chiusa
andare solamente per vedere
per abitarvi mai. Una cura qualunque
non basta, serve all’ora – non al poi.
X
E neppure specchiarsi. Troppo liscio
lo specchio, non può somigliare a niente
di vivo. Superficie che fugge
via dalla pelle, che non sa radici
mai. Per questo quando crede di vedere
più a fondo teme l’esatta misura
si torce dentro il male dello sguardo
si frantuma con noi.
XI
Ritrarre invece – rintracciare il solco
di ieri, del domani che non vedi.
Comporre di ogni ruga sulla fronte
di ogni tuffo più buio in mezzo agli occhi
la tabella di marcia del tempo
il suo correre via senza di noi.
Farsi trovare in piedi, al lavoro
là nel campo minato.