Si dice spesso che la poesia “civile” non ha mai dato frutti altissimi di letteratura e di forma, ma forse alla poesia civile questo non interessa perché il suo compito è farsi diapason sensibilissimo, sentinella, e dirci quando una cultura sia arrivata al suo apice, al punto di massimo splendore e decadenza. Quando parole e cose finiscono per non coincidere più. E a quel punto il problema riguarda la resistenza di una forma di spiritualità della specie. Non più la Bellezza.
In fondo ha ragione Lucini a dire, nell’introdurre queste poesie, che “la satira può essere considerata la misura del sentimento di libertà presente in una koinè poetica”…
Koinè: parola che disegna uno stato di fatto – linguistico – e delinea contemporaneamente un limite della modernità, in quanto assai raramente, in una koinè, noi assistiamo all’attrito di due pensieri, di diversi modi di intendere la poesia. Koinè, quindi, è più che altro conferma, ad armi bianche, di una situazione irremovibile, dove la coabitazione senza communio è scontata.
Che questa communio debba attestarsi a tutti i costi, non è cosa di per sé proponibile, visto che la poesia si iscrive nel processo, alquanto personale, di sentire la propria vocazione e di fare i conti con la propria musa, mentre oggi essa sembra imbellettata e derisa senza nessuna autorevolezza.
Personalmente considero posizione assai privilegiata quella dei poeti critici - per i quali occorrerà trovare una dicitura più suggestiva, che li distingua dal critico puro – .
Perchè i poeti critici, al pari dei registi attori, hanno in più la chance di poter leggere la scrittura non come chiave di volta di un percorso, ma come momento privilegiato e irripetibile in cui l’essere si dà con tutti i suoi splendori e le sue infinite imperfezioni, e si confronta, a tu per tu.
I poeti critici posso esercitare la scelta di analizzare i fatti fregandosene del canone e ragionare, piuttosto, secondo una griglia di risonanze, somiglianze e differenze, all’interno di questa koinè di cui si parlava prima.
Soprattutto hanno il potere di far risuonare le proprie parole poetiche nelle parole poetiche degli altri, nel gioco di indossare e togliere maschere, al fine di far emergere le briciole di una verità che non si difende.
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Alessandro Assiri ritaglia le sue poesie civili - lapidi essenzialissime contro il già accaduto, l’ineluttabile - dentro i confini di una morte collettiva, quella che, malgrado ogni resistenza, attraversa il mondo e lo plasma a sua immagine e somiglianza.
E appartiene a questo tipo di poesia – più di ogni sperimentazione che si nutra del sottotesto dello scontro, anche civile, in realtà per parafrasarlo – la possibilità di ricondurre ogni cosa, ogni senso, a una morte che è “solo vita che calma”, per “stare al riparo delle parole che ci fanno vivi”.
Detto questo, si potrebbe tacere per sempre. Le parole possono andare dove vogliono, i poeti possono giocare con le parole, sentirsi molto buffi o molto tristi o molto seri, saltimbanchi senza più Voce, piccoli inebetiti profeti attaccati alla Voce, tutti bocca e ciechi, irresponsabili, proprio perché ignoranti delle loro stesse parole; distruttori di senso, perché tanto ogni senso è ormai sepolto, irrecuperabile da anni …Tutto questo può succedere, o è già avvenuto, ma non ci si può dimenticare che è la morte ad accogliere tutti; soprattutto quella delle parole.
“Se nessuno voleva i morti erano loro a volere noi”.
Assiri, dunque, ha deciso di sostare nelle prossimità di fatti precisi: la strage della stazione di Bologna, le persone morte, i cori (quelli sì, veri cori!), i sopravvissuti. Non si può scappare né cincischiare. La nostra coscienza di quegli anni era debolissima per contingenze anagrafiche ma forse più lucida perché, appunto, sprovvedduta e sopravvissuta.
Il tono di queste poesie è amaro e secco: qualche imprecazione, ma soprattutto niente buonismo.
Poi che a me non piace chi dei morti parla bene
come se morire stabilisse i turni con i buoni
Rivolta: “Tu non comprare il pane compra dinamite”
Tentativi di riconciliazione: “Tra l’eskhimo e il loden far pace con il morto”.
Tutto questo è la necessità della scrittura, nella veste di Voce del mondo, quando essa, e i poeti c’entrano poco, giunge al punto di percepire, per umano istinto della specie, per resistenza, la malattia dell’inconsistenza elevata a sistema, il sulfureo che si cela dietro l’angelo, il puzzo di un novecento ancorato ancora alle sue immani statue di splendore, altissime e inarrivabili.
Sebastiano Aglieco
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Restare il tempo breve di una bocca dopo l’altra
stare al riparo delle parole che ci fanno vivi
e quale parte del cuore ti batteva
quando la morte è solo vita che cala
quanti anni dei nostri temporali
particelle di pronome a sporcare la casa
e Adriano che continua la difesa
donatori di sangue quello alto due metri
il tempo del padrone e quello dei servi
come figli maggiori a un amore guardarvi
col sudore seccato e con gli altri poeti.
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Sotto le unghie dove tenevi il mondo
consumavi maggio di lenzuoli tutti in fila
senti come tace il tuo pugno alzato
adesso che indietreggi perché sei rimasto vivo
tra una scarpa calzata e un’altra perduta
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Sei Francesca o sei Rita chi la valigia l’ha messa o chi ci ha lasciato la vita
un altro agosto di strade cambiate carbone e diamanti i vestiti del mostro
perché Bologna è una nevralgia dopo gli ultimi indiani il resto è prateria
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Da ogni viaggio tornavi macchiata di due figli
e quarantaquattro cani bagnati di pioggia leggera
con l’istinto irragionevole di contarsi tra i salvati
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Tra l’eskimo e il loden far pace con il morto
coi fratelli precedenti e i vestiti più magri
bandiere da finire col male minore
saper tanto di acqua di notte alla fine del letto
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E anche qui che ci mancava l’idea stessa di aver niente
restavamo appesi ai ferri convinti di allevare santi
tra le parole sottolineate di una grammatica di sputi
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La voce più bassa il nemico più grande
piano piano torna ferro il legno
non c’è più niente di civile che ci lascia in pace