La diffusione generalizzata della telefonia mobile ha portato tanti cambiamenti. Tutti irreversibili, e tutto sommato positivi. Fra di essi, va ricordato lo spostamento della comunicazione: non più rituale, collettiva, mediata, ma ormai divenuta individuale. Non si chiama più, o quasi mai, ad un numero di rete fissa. Si preferisce cercare quella persona direttamente al portatile. Si va subito al sodo, comunicando senza filtri né attese estenuanti né ricerche da un ufficio all’altro. Il contatto è diretto, immediato, tempestivo: si chiama una persona per avere un’informazione, un parere, un via libera su qualcosa, qualunque altra ragione per cui è opportuno parlare con quella persona. Otteniamo quello che vogliamo, ringraziamo il nostro interlocutore salutandolo velocemente ma educatamente, e tutto procede come avevamo previsto, o quasi. Finiti, o quasi, i tempi del sentirsi dire “è in riunione, lascio detto che ha chiamato”, il promettente “la faccio chiamare appena torna” il desolato “non so dove sia, le conviene ritelefonare” fino allo sfibrante “chiami lunedì prossimo”. La comunicazione diretta, personale, spazza via tutto questo: fasi di lavoro, o passaggi più o meno decisivi che, in altri tempi, potevano portare via giorni e giorni come niente, si risolvono in pochi minuti, o quasi. Si lavora meglio, si rende di più, ci si affatica di meno. O quasi.Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Perché se ci troviamo ancora ad interfacciarci con segreterie più o meno efficienti, e terze persone più o meno gradevoli che le compongono, è quasi sempre per una ragione precisa: dobbiamo contattare una certa persona, ma non abbiamo il suo numero di portatile. Oppure, peggio ancora, ce l’abbiamo, ma non ci risponde. Da tutto questo, emerge un’amara considerazione: che nell’era della comunicazione individuale non sappiamo ancora gestire una delle più grandi insidie del ventunesimo secolo (direttamente importata dal ventesimo): la mancata risposta. Un concetto abbastanza semplice, declinato in tante, complesse sfaccettature. Dal semplice “non rispondere” al telefono, al farsi negare dai propri collaboratori. Quante volte vediamo, in riunioni od incontri od altre circostanze, persone che prendono in mano il telefonino e, una volta visto chi è, decidono di non rispondere? E siamo davvero sicuri che, una volta finita la riunione od accomiatato l’interlocutore, quella persona verrà richiamata? Email inviate senza nessuna risposta. Richieste di avviso di ricezione che non vengono trasmesse. Relazioni ed informative trasmesse per tempo, che stranamente non si riesce più a trovare. Le strategie del “non rispondere”, e del “non farsi trovare” crescono e si diversificano, così come la genialità di chi non si ferma certo di fronte ad un atteggiamento che è tra i più odiosi nel mondo del lavoro, ed anche nella società in generale.La “non risposta”, specialmente al telefono, sembra diventata uno status symbol. Vedo tante volte persone ostentare, tra il compiaciuto e il soddisfatto, affermazioni del tipo “quel tipo mi sta cercando da mesi, ma io sto facendo
di tutto per non farmi trovare”, o “mi chiama, ma io non gli rispondo”, col tono di chi ha vinto a carte. È uno status symbol che tuttavia provoca danni, e ha dei costi spaventosi in termini di produttività piena, intesa come perdita secca di fatturato. Consolidata ed accettata con inquietante rassegnazione, in particolare presso alcuni ambiti (il parastato su tutti, ed il settore pubblico in generale), ed assunta a stile di comunicazione, la “Mancata Risposta” costa anche in termini di equilibrio e serenità. Per puro esercizio, e un po’ per gioco, ho provato a catalogare le frasi cui, indicativamente, potremmo ricondurre questo “non modo” di comunicare.
§“so che mi stai cercando, ma non ho voglia di comunicare con te perché non mi fa comodo”,
§“so che mi devi dire cose importanti, che presuppongono l’aver affrontato una certa situazione. Ma siccome non ho fatto nulla, non voglio mettermi in una posizione d’imbarazzo”
§“considero una perdita di tempo rispondere alle tue domande”
§“mi rendo conto che attendi da me una certa risposta: ma siccome non posso o non voglio dartela, preferisco non parlare con te”
§“non voglio consentirti di progredire nel tuo lavoro”
§…e molto altro ancoraPer dovere di completezza, ci sono altri motivi per cui si adotta lo stile della “Mancata Risposta”: scarsezza di tempo, riunioni stringenti e situazioni particolari che impediscono un feedback immediato. Ma si tratta, in genere, di scenari in cui è l’interlocutore destinatario del nostro contatto a cercarci a sua volta, non appena si trova in condizione di farlo ed ha avuto contezza della nostra ricerca. Non sono queste, tuttavia, le circostanze cui facciamo riferimento: perché, per fortuna, le persone corrette e professionali ci sono ancora. Si dà il caso che nella mia esperienza mi sia accaduto – e purtroppo, capita ancora – di avere a che fare con dei professionisti della “Mancata Risposta”. E si dà il caso che mi trovi in una fase della vita in cui la “Mancata Risposta” è un lusso che non posso più permettermi. Nel senso che non posso più permetterla agli altri. Mi sono spesso chiesto che cosa posso fare, ed il tempo e la calma mi hanno insegnato due verità d’oro, confermate dalla ricca saggistica sul tema. La prima è che è perfettamente inutile insistere cercare di contattare una persona che si nega, secondo i metodi convenzionali che si sono finora adottati. La seconda è che, volenti o nolenti, ci si deve mettere nei panni di quella persona: accettando, magari, di essere al massimo comprensivi nei suoi confronti. Non certo di giustificarla. L’esperienza mi hanno suggerito quattro metodi, tutti efficaci, tutti complementari l’uno con l’altro, tutti fattibili anche contemporaneamente. Provo a descriverli.
1. Effetto specchio - Il primo metodo, consiste nel disarmare il “non risponditore” con una sorta di ‘effetto specchio’, creando a mia volta una sorta di iniziativa che richiede, da parte sua, l’uscire allo scoperto, il cercarmi necessariamente per comunicare con me. Metodo complesso, non sempre accessibile (per lo meno nel breve periodo), è assolutamente geniale e, quando ci si riesce, ci si gratifica con una forte dose di autostima.
2. Imboscata - Il secondo metodo è quello dell’impatto comunicativo: si cerca di incontrare quella persona in contesti e/o situazioni in cui non può e non vuole sottrarsi, e si sottopone l’interrogativo o lo stato di fatto sul quale occorre un parere o, più prosaicamente, una risposta. Ha il grave limite di sfociare, spesso, in un rinvio generalizzato di una qualunque decisione. Il che non vuol dire che non possa dare i suoi frutti (sempre che l’oggetto della nostra richiesta sia “fattibile”, e non comporti decisioni complesse, o di rilevante impegno finanziario).
3. “Mo’ chiamo mio cugino” - C’è chi preferisce, poi, fare arrivare a quella persona un ‘segnale’ da parte di un pari grado, od un superiore, od una qualunque altra entità sovraordinata al “non risponditore”. È un metodo che, tutto sommato, funziona. Ma ha il grave difetto di confidare troppo sulle dinamiche aziendali, sociali o politiche: poggia, in definitiva, su certezze effimere, dato che non sappiamo se la persona “in alto” che, oggi, ci segnala al nostro interlocutore elusivo, potrà un domani esserci ancora d’aiuto (la caducità dei politici e dei manager sta assumendo livelli impressionanti).
4. Il metodo della restituzione – Il quarto metodo è invece il mio preferito, ed è da stato da me battezzato “il metodo della restituzione”: consiste in pratica nel ‘restituire al mittente’ gli effetti della “Mancata Risposta”, attuando una serie di dinamiche per movimentare e coinvolgere (anche se non è strettamente necessario) contatti comuni per determinate questioni, progetti o quant’altro. L’obiettivo è quello di ‘stringere d’assedio’ l’interlocutore: non solo costringendolo ad uscire dal suo guscio, ma mettendolo di fronte al fatto compiuto, meglio ancora causandogli dei danni per il suo essersi voluto isolare. Un esempio classico, preso dalla mia esperienza diretta, è l’aver messo su in quattro e quattr’otto una riunione importante, nella quale vengono prese decisioni determinanti, così da far capire a chi di dovere che nessuno è indispensabile. Altro esempio, è il far rimbalzare su altri interlocutori gli effetti della “Mancata Risposta”, come a voler preconizzare un’evoluzione devastante di un dato atteggiamento. Potrei andare avanti ancora, ma preferisco fermarmi qui. L’importante è che “il metodo della restituzione” (che funziona quasi sempre, ma richiede abilità e nervi saldi) sia attuato in tempi rapidi e secondo modalità imprevedibili. La sua efficacia è garantita solo se i suoi effetti vengono percepiti dal destinatario in una fase in cui, ormai, è troppo tardi per intervenire.
Il 4° metodo è il mio preferito, l’ho già detto e lo ripeto. Il che non significa che non mi piacciano anche tutti gli altri. L’importante è essere seriamente motivati, sereni e, soprattutto, consapevoli dell’importanza delle cose di cui vogliamo discutere con l’interlocutore. Sia mai avesse in fondo ragione a scansarci, ritenendoci – non a torto – nient’altro che dei rompicoglioni. Se invece sapete di essere nel giusto, DOVETE comunicare, e niente e nessuno può fermarvi. Se adottate, in particolare, “il metodo della restituzione” (ma anche con gli altri, tutto sommato) dovrete avere la lucidità ed il
pragmatismo del protagonista del bellissimo film “Seven”, dove il protagonista (interpretato da Kevin Spacey), sancisce “non c’è dubbio ch’io provi piacere a far ricadere sul peccatore le conseguenze dei suoi peccati”.
Alessandro Ferri