Alessandro Fersen – riflessioni

Da Ivy

L’umanità è divisa in due categorie: i sani e gli ammalati. Un tacito abisso li divide: i primi non capiscono i secondi e non lo sanno. Non sentono accanto a loro un’altra umanità, con la loro ottusa sensibilità di contenti. Sui secondi pesa tutta la differenza: essi vedono sopra di sè il mondo dei sani, non sanno informarli della differenza, perchè preferiscono nasconderla o perchè è impossibile. Il sano non comprende il malato: prende le sue esigenze per capricci, quando le conosce. Non ha mai provato il pungiglione del male: per questo è senza pietà. E’ brutale, egoista. Nella malattia c’è qualcosa di femmineo. Essa è la grande educatrice degli spiriti delicati. In qualsiasi malato è la stoffa dell’infermiere: vi è in lui un’arcana ispirazione di finezza e di tatto, che meravigliano l’uomo sano. Vi è in lui una rassegnazione cristiana e una tristezza piena di filosofia che contrastano con la paura animale e il nervosismo dell’uomo sano, quando per caso cade malato. Vi è in lui un’attitudine ampiamente sviluppata alla comprensione e al perdono.

Avendo bisogno di aiuto, il malato è anche più pronto a dare aiuto. La sua simpatia va facilmente ai deboli e ai sofferenti, e la sua ammirazione quasi sensuale alle salde fanciulle ridenti e abbronzate, alle forti spalle e all’incesso sicuro dei “maschi”. Perchè l’uomo malato non è un maschio: in lui la materia della madre e la materia del bambino sono curiosamente mescolati. Ha bisogno di essere cullato ed è pronto a cullare. Non ha la virilità dell’uomo, ma ha più saggezza della donna. Supera tutti e due per la sua profondità psicologica e per la sua acuta sensibilità a tutte le manifestazioni della vita – colori, suoni, parole, idee. Per questo è facilmente artista, o piuttosto l’artista è spesso un “malato”. L’arte stessa è in fondo una malattia, o meglio la guarigione, illusoria o concreta, da una malattia.

A. Fersen, da giovane, ha sofferto di tubercolosi, queste riflessioni sono frutto del periodo di malattia e di convalescenza.

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riflessioni mie… Chi soffre è compreso solo da un cuore che ha molto pianto, perché la sofferenza non è mai solo dolore fisico, o mentale o morale. La vera sofferenza è sempre totale.

Sani e malati non si capiscono, sono due mondi diversi, due contesti sociali impermeabili l’un all’altro, seppur costretti a dividersi lo stesso spazio. Per questo un malato, nel suo estremo bisogno di relazioni, per uscire dalla solitudine, dall’isolamento in cui la categoria dei sani lo rilega, entra in una fortissima sofferenza. Si sente per un verso diverso e non capito dai “sani” ma d’altronde, è un essere sociale che non vorrebbe restare isolato, perché è felicità essere come gli altri.

La condizione per un suo equilibrio armonico non è solo quella della rinnovata sanità fisica perché nella malattia si fanno più impellenti le esigenze non materiali ma altrettanto fondamentali per l’uomo.

I sani sono convinti di essere più perfetti dei malati e in un certo senso lo sono, ma da un altro punto di vista, più profondo (possibile solo ai malati o chi lo è stato e non dimentica) hanno invece un’inferiorità rispetto a chi è nella malattia. L’inferiorità di non poter sentire intorno a sé gli spiriti che soffrono e quindi di non sapersi avvicinare per aiutarli. Perché non è mai solo il corpo a soffrire ma tutta la persona. Per aiutare un malato quindi non serve un sano, ma un altro malato o che è stato tale e ha scelto di non dimenticare. Scelto, perché accanto ad un malato è richiesto un sacrificio volontario ed enorme poiché enorme è la misura del soffrire dello stesso; e se non del soffrire fisico – placato dagli antidolorifici – di quello psichico e morale.

I sani non comprendono il sacrificio, non ne afferrano la grandezza, tanto è a loro superiore e quindi insupponibile. Credono che sia una fortuna vivere senza problemi e senza pensare alle malattie. E seppelliscono i malati fino alle viscere della società che non deve, non vuole vedere, e pensa più che altro a come sopprimerli in fretta. Eppure la malattia dà una super sensibilità gli animi e anche i superficiali dopo averla in sé comprendono che è anche più ieratica la dignità dell’uomo quando è malato. Perché può sentire ciò che non a tutti è permesso e la sua consapevolezza aumenta.

Il bisogno di relazioni vere del malato è conseguenza della sua natura umana perché anche nella malattia resta il suo sentirsi un individuo sociale. Perciò richiede amore, comprensione e rispetto, in un continuo bisogno di trascendenza, di elevarsi al di sopra della struttura di pensiero dei sani, mediante spiritualità che prende la forma della creatività, dovendo trovare modi nuovi per esprimersi. Ecco l’artista. La necessità di soddisfare le proprie aspirazioni, di realizzarsi, di crearsi una propria nuova identità spesso trova sfogo nel malato, nella creatività artistica.

L’uomo ha bisogno di schemi di riferimento, di un sistema stabile e coerente di valori che gli consentano di percepire e di comprendere il mondo. Schemi che venivano forniti dal costume, dalla cultura, dalle norme acquisite quando si apparteneva alla categoria dei sani e che inevitabilmente ora perdono di senso, e i riferimenti cambiano, spingendo chi si ammala nell’incertezza, facendogli sentire l’isolamento dai sani di cui prima faceva anche lui parte.

A ciò egli può reagire con la ribellione, con la protesta ma questo non lo guarisce dalla sofferenza. L’uomo malato, ha bisogno di una nuova identità personale, di sentirsi ancora un individuo rispettato e riconoscersi in un’immagine di se stesso coerente e stabile e se non raggiunge questo fine per mezzo del suo sforzo creativo può arrivarvi identificandovi con altre persone come lui, altri malati (stati tali ma con cicatrici visibili nella psiche affinchè possa riconoscerli). Di qui la necessita di sentirsi iscritto, e con onore, nella categoria dei malati, per combattere l’isolamento, la solitudine e la carenza d’identità che ora il confronto con i sani gli provoca.

Il mondo contiene sani e malati, la vita stessa alterna momenti di sanità e malattia. Pretendere che tutti gli uomini siano uguali? E come? Sani ma superficiali o sofferenti ma sensibili? Ognuno ha il suo momento e la sua missione nello stesso. Quella del malato (o stato tale) è prendersi cura della sofferenza di un malato, poiché un sano saprebbe forse curare bene il fisico ma però mai soltanto il fisico si ammala.

Così è un diritto essere malati perché è insito nella natura umana e allora è perfino dignitoso esserlo. Ed è carità attiva prendersi cura di chi, per la malattia ha con sé una sofferenza biologica e psichica e che solo chi lo comprende può lenire. Il valore dell’uomo è ben altro di quello che si intravede stando nella categoria dei sani.

Guardare in un altro modo il prossimo malato, come se si fosse madri e si guardasse il proprio vulnerabile e sensibilissimo bambino.

La categoria dei sani passa con sussiego e con palese malanimo fra i malati. Le consuetudini del loro modo di pensare gli riempiono la testa di una deferente superstizione per tutto ciò che è fisico sano. Dicono, non senza nequizia, che è meglio vivere non pensandoci e guardando solo a loro stessi, perché in fondo anche il cosmo è cieco e continua a girare senza prendere in considerazione i suoi abitanti.

Finché non si ammalano, finché non tocca a loro, sono incatenati a cose futili che credono fondamentali. Si impediscono di vedere quanto superficiali, incostanti e insignificanti siano tutte le loro pianificazioni del futuro, per voler a tutti i costi illudersi di far parte per sempre della categoria dei sani. E così (peggio per loro!), sono i malati, o gli artisti che sono poi malati anche se spesse volte senza sofferenza fisica, a servirsi meglio del proprio intelletto e della propria sensibilità, e cercando di comprendere  il valore più alto dell’uomo, si avvicinano al senso della vita .


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