Alessandro Mari è uno scrittore “puro” e non solo perché ha il viso da bravo ragazzo e il fisico sportivo dell’ex giocatore di pallanuoto, ma più semplicemente perché è uno che ammette di “non avere mai avuto un piano B”, ovvero di avere sempre creduto che scrivere libri gli avrebbe dato da vivere. E aveva ragione.
Nato 32 anni fa a Busto Arsizio, in provincia di Varese, Mari ha fatto molto parlare di sé nel 2011 grazie al successo del suo romanzo d’esordio, Troppo umana speranza (Feltrinelli), un “kolossal” letterario ambientato in epoca risorgimentale, che in quasi 800 pagine intreccia le vicende personali di quattro giovani a quelle dell’Italia che nasce. Un romanzo storico che ha superato le ventimila copie, è stato già tradotto in spagnolo e in francese e del quale presto sarà disponibile anche la versione tascabile.
Incontro Mari a Milano, in occasione di un convegno di BookCity che riunisce gli ultimi tre vincitori del “Premio Edoardo Kihlgren Opera Prima” tra cui figura lo scrittore. Al termine dell’evento lo accompagno a fumare una sigaretta in strada e lì restiamo per tutto il tempo della chiacchierata, che non sarà breve. Perché Mari non è mai avaro di parole e la sua disponibilità, con divagazioni annesse, è un invito a domandare.
Il tuo è un caso letterario abbastanza inconsueto. Prima di tutto perché hai scritto un’opera quasi manzoniana e in secondo luogo perché l’hai concepita a soli 25 anni e ci hai lavorato per quasi un lustro. Come è nata questa passione per la storia?
Avevo un nonno “raccontastorie”. Era un camionista, aveva fatto la guerra e da ogni viaggio tornava con nuove avventure da raccontare. Mi piacevano molto i suoi racconti, specialmente gli aspetti umani delle vicende. Credo che la mia passione sia nata lì.
Quando hai capito che saresti diventato uno scrittore?
Dopo la laurea in letteratura straniera con una tesi su Thomas Pynchon dovevo decidere se i libri volevo scriverli o criticarli. E ho scelto la prima. Intanto lavoravo come editor e traduttore per Einaudi e Feltrinelli.
Troppo umana speranza è un feuilleton complesso che avrà richiesto un enorme lavoro di verifica dei dettagli storici. In questi casi è facile essere attaccati per la minima inesattezza. Non ti preoccupava questo aspetto?
No, anzi per me è stata una parte divertente del lavoro. Questa cosa del documentarsi mi piace assai.
Mentre scrivevi ti confrontavi con qualcuno o per cinque anni hai fatto tutto da solo?
La verità è che è stato un lavoro titanico e l’ultimo anno sono arrivato a scrivere 12 ore al giorno. Ho fatto leggere solo parti molto grandi, non brevi capitoli, a un paio di amici che non hanno i miei stessi gusti e per questo mi fido molto del loro giudizio. Prima di far leggere a qualcuno i testi ho bisogno di “appaciarmi” con me stesso. Poi ho consegnato tutto al direttore letterario di Feltrinelli, Alberto Rollo.
Dopo tanto lavoro, ti aspettavi il successo?
Per me era già una soddisfazione aver terminato il libro, che in origine aveva ben 300 pagine in più della versione finale e che, con il lavoro di editing, sono state tagliate. No, in realtà non me l’aspettavo e devo dire che è stata una bella soddisfazione.
Sei stato allievo della scuola Holden. Quanto ti è servita la scuola per arrivare alla pubblicazione?
Frequentare la Holden credo sia molto utile per capire come funziona l’editoria, per conoscere le case editrici e sapere a chi mandare cosa. Non è una questione di contatti personali, perché non tutti quelli che escono dalla scuola diventano scrittori, ma di certo si impara a identificare chi potrebbe essere interessato al nostro lavoro.
Qual è stata la critica che ti ha dato più fastidio all’uscita del romanzo?
Quando il romanzo esce sei sovraesposto e le critiche, all’inizio, ti toccano. Mi hanno detto che il romanzo era anacronistico, pesante, troppo pieno di snodi di trama. Ci ho pensato e ho capito che non potevo prendermela perché è vero. Io volevo un romanzo che fosse proprio così. La critica è democratica, è giusto che ognuno dica quello che pensa. E non per questo bisogna soffrirne.
Ti avranno ricompensato con qualche bel complimento?
Quando vinsi il premio Viareggio-Repaci, un membro della giuria mi fece i complimenti dicendomi che era un piacere leggermi perché si vedeva che “credo nel romanzo”. Ed è vero. Io ci credo.
Si sa che gli scrittori a cui ti ispiri sono i grandi classici come Dickens, Dostevskij, Balzac. E tra gli scrittori contemporanei chi apprezzi?
Don de Lillo, Thomas Pynchon, Maurizio Maggiani, José Saramago, Ernesto Sábato, García Marquez. Tutti tra i miei preferiti
Dopo Troppo umana speranza ti sei avventurato in un coraggioso esperimento letterario scrivendo Bandùna, un vero romanzo d’appendice pubblicato in eBook da Feltrinelli Zoom per 12 settimane. Un’iniziativa che ha riscosso un notevole successo. Come è stata questa esperienza?Dura, una vera sfida, perché io avevo pronte solo le prime due puntate, le altre dieci sono state scritte di settimana in settimana e, a complicare la situazione, c’era un sito dedicato in cui lettori potevano interagire. E proprio come capitava al tempo dei feuilleton, in cui il pubblico influiva con le sue opinioni sulla sorte dei personaggi, anch’io tenevo in conto i commenti dei lettori.
E adesso possiamo sapere su cosa stai lavorando?
Il prossimo romanzo dovrebbe avere due linee narrative, una storica e una contemporanea, invece di quattro come Troppo umana speranza, quindi si presume che le pagine si ridurranno della metà. Il libro dovrebbe uscire per la fine del 2013.
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