Alessio I, i Peceneghi e la questione pauliciana 01 (di Mirko Pazienza)
Alessio I, i Peceneghi e la questione pauliciana 02 (di Mirko Pazienza)
Alessio I, i Peceneghi e la questione pauliciana 03 (di Mirko Pazienza)
Alessio I, i Peceneghi e la questione pauliciana 04 (di Mirko Pazienza)
Alessio I, i Peceneghi e la questione pauliciana 05 (di Mirko Pazienza)
Alessio I, i Peceneghi e la questione pauliciana 06 (di Mirko Pazienza)
Alessio I, i Peceneghi e la questione pauliciana 07 (di Mirko Pazienza)
Alessio I, i Peceneghi e la questione pauliciana 08 (di Mirko Pazienza)
E arriviamo al cuore di questo lungo e elefantiaco racconto.
Una decina d’anni fa, quando mi accinsi alla lettura dell’Alessiade, proprio
per degli articoli che scrissi su un quotidiano della mia città, e riguardanti
proprio le campagne normanne in Romania del Guiscardo e di Boemondo d’
Altavilla, scoprii questa chicca di cui mi accingo al racconto.
Una storia tragica, degna di un romanzo e che se fossi un romanziere, mi
sarebbe piaciuto sviluppare.
Una di quelle apparenti piccole storie di personaggi che emergono dall’
oscurità della storia, per risprofondarne subito dopo, e che però gettano una
piccola luce su un’epoca, un mondo, un contesto storico e culturale, e che
possono fornirci piccoli, ma preziosi indizi anche sulla grande storia, quella
dei potenti.
Dunque siamo nel dicembre del 1083, nel periodo di Natale e a Costantinopoli,
che allora, come oggi, doveva avere i tetti imbiancati di neve.
Chissà che effetto doveva fare Santa Sofia e le altre grandi e piccole chiese
della Regina delle Città.
Chissà quanti fiocchi di neve, quante pentole e caldarroste, camini accesi,
nel Grande Palazzo imperiale, nelle residenze dei nobili, dei ricchi e nelle
casupole dei poveri, nelle bettole e nelle osterie, che, in mancanza di fonti
iconografiche comprensibili, ci piace ritenere non tantissimo diverse dagli
edifici dai tetti spioventi e in parte di legno, della più tarda epoca ottomana
e turca repubblicana, come compaiono, ad esempio, in racconti come Istanbul di
Pamuk.
Quel Natale del 1083, in Romània e soprattutto nella Capitale era un periodo
di gioia e festeggiamenti, prima per la vittoria di Alessio sul pericoloso
Boemondo d’Altavilla, pericolo solo temporaneamente rimosso dalle beghe
politiche italiche, in cui gli Altavilla si trovarono coinvolti loro malgrado,
in quanto vassalli della Santa Sede.
Ma accanto alla vittoria politico militare del giovane imperatore Alessio, vi
era stato anche un lieto evento: il 2 dicembre di quello stesso 1083, nel
momento dell’ingresso di Alessio vittorioso, la giovanissima imperatrice Irene,
a 17 anni, dopo un parto travagliato, aveva dato alla luce la primogenita della
coppia imperiale, la principessa porfirogenita (perché nata nella sala del
Trono, detta la Porpora, per via delle pareti rosse, il colore simbolo dell’
imperatore) Anna Comnena.
Dunque per Alessio (e Irene), la famiglia imperiale Comnena-Ducas e per la
popolazione romana, finalmente un Natale più gioioso, più carico di speranze,
il primo forse dopo tanti anni, in quel tremendo ventennio 1071-1091. E ancora
altri ne sarebbero venuti di inverni duri e tristi, ma in quel momento era la
speranza a dominare.
Epperò quel lontano natale del 1083, non era un momento di gioia per TUTTI i
sudditi romani, e in quei giorni c’era chi nel buio di una cella fredda, nel
confino su di un’isola nel Marmara o nell’Egeo, tra i campi gelati e i freddi
inverni del Balcano, soffriva lacrime amare.
Si trattava dei Pauliciani puniti da Alessio un mese prima circa, e di cui
abbiamo già accennato.
Tra questi infelici c’era un uomo che in conseguenza di queste dure misure
prese dall’imperatore, avrebbe scatenato una nuova e pericolosissima guerra.
Nel 1078, appena divenuto Domestico delle Scholae o Gran Domestico, insomma il
capo delle forze armate, il giovane generale Alessio Comneno aveva assunto nel
suo staff, un pauliciano, che Anna Comnena chiama Travlòs, termine romaico
indicante un balbuziente, e verosimilmente un soprannome dal sapore snobistico-
spregiativo dietro cui si nascondono il vero nome e l’identità di un
personaggio che non conosceremo mai.
Dunque anche noi lo chiameremo Travlòs, solo a scopo indicativo, e non per
spregiare la memoria di qualcuno la cui madrelingua non dovette essere il
Romaico, ma più verosimilmente una variante armena dialettale, oppure un
dialetto bulgaro slavonico, come forse da tempo parlava la numerosa colonia
pauliciana di Filippopoli, e costituente un’isola etnolinguistica nel mare
slavofono della Tracia settentrionale. Oppure era un bilingue armeno-slavo
(così come la sua gente).
Ciò che appare dal racconto di Anna, è che quest’uomo doveva parlare un
romaico grossolano, approssimativo, o comunque con un forte accento che ne
delineava la provenienza non romeofona.
Chi era questo Travlòs?
Anna lo definisce un membro della servitù di Alessio, ma dal contesto e da ciò
che sarebbe successo poi, sembra verosimile ritenere che il pauliciano fosse un
ufficiale ed un ufficiale piuttosto esperto e valoroso.
Poi il periodo in cui entra in servizio presso Alessio è indicativo. Siamo nel
1078, nei primi tempi del regno di Niceforo III, al’epoca della rivolta
PAULICIANA di Leka, di cui già abbiamo parlato.
Travlòs era stato un commilitone di Leka? Si conoscevano? Aveva partecipato
alla rivolta contro Botaniate (in realtà più una rivolta antiromana) e resosi
corresponsabile dei Massacri tra il delta del Danubio e Niš, alla testa di
80.000 uomini, in maggioranza peceneghi? Fu catturato da Alessio assieme a Leka
e a Dobromir?
Non lo sapremo mai, ma è probabile che venisse da quello stesso background
ribelle di Filippopoli.
Alessio, che come Anna ci ripete più volte nell’Alessiade, stimava i
Pauliciani proprio per il loro grande valore militare e per il loro coraggio,
costantemente bisognoso di esperti ufficiali e soldati, per quale che sia la
causa, arruola Travlòs nel suo staff, ma lo fa battezzare all’Ortodossia
Cristiana e gli da in moglie una domestica della moglie (e futura imperatrice)
Irene.
Passano 5 anni, durante i quali il nostro Travlòs dovette dare esempio di
pauliciano integrato, un pò come i convertiti all’Islam nei coevi imperi
musulmani e nel futuro Impero Ottomano.
Forse fu a fianco del suo signore durante le guerre contro Niceforo Briennio e
Niceforo Basilacio, e poi con Alessio Imperatore a Durazzo e nell’offensiva
antinormanna.
Non sappiamo se fosse presente a Mosinopoli nel novembre 1083, quando Alessio
punisce la leadership pauliciana.
Però Anna ci dice chiaramente che Travlòs maturò la sua ostilità e ribellione
contro l’imperatore, in conseguenza di quelle misure repressive, e più
specificatamente quando venne a sapere che le sue quattro sorelle erano state
anch’esse imprigionate e le loro proprietà confiscate.
Da queste scarne notizie, possiamo dedurre che Travlòs non fosse un pauliciano
qualsiasi, ma piuttosto un notabile e che la punizione imperiale si era
abbattuta anche sui suoi familiari rimasti pauliciani, proprio in virtù di tale
status sociale!
Anna non poi è molto reticente e cerca di sminuire la faccenda, arrivando
addirittura a descrivere Travlòs come una specie di ingrato che ha sputato sul
piatto dove ha mangiato, ma chiaramente questo è il punto di vista imperiale,
quella che dovette essere la versione ufficiale di ciò che accadde dopo, e che
Anna naturalmente riporta.
Ma il nostro sospetto è che la faccenda fosse molto più grave di quel che
appare nell’Alessiade.
Possibile che Travlòs prima di intraprendere la strada rischiosa della
ribellione, strada che appare meditata e non repentina, non avesse chiesto la
grazia al suo sovrano per le sue sorelle?
Tenendo conto che passò qualche mese dalla rivolta, non possiamo escluderlo e
il nostro non ci sembra certo uno sconsiderato, anche se Anna, ovviamente cerca
di farlo passare come tale.
Una cosa ci colpisce, tenendo conto degli eventi successivi, e cioè quando
ormai Travlòs era diventato un ribelle dichiarato e pericoloso, Alessio cercò
di trattare, emettendo persino una Crisobolla (Bolla d’Oro), documento di
altissimo livello, e in cui si garantiva all’ex “cameriere” il pieno perdono e
la libertà. Però Anna NON fa alcun riferimento alle 4 sorelle di Travlòs.
Si può supporre che forse le povere donne dovevano esser passate a miglior
vita, probabilmente per la brutalità e l’oltraggio della detenzione e la
confisca dei loro beni.
Oppure erano GIA’ morte al momento della rivolta del loro congiunto (inizi del
1084).
Sta di fatto che in quel Natale del 1083 e nei primi mesi successivi, l’ira di
Travlòs aumentò e con essa, il rancore e il desiderio di vendetta contro il suo
sovrano e signore.
Forse, altri parenti e profughi di Filippopoli giunti a Costantinopoli per
chiedere aiuto al più illustre congiunto, come sembra trasparire dalla pur
reticente Anna, dovettero ragguagliarlo degli sviluppi della situazione.
La moglie, domestica dell’imperatrice Irene, venuta a conoscenza di questa
tragedia, probabilmente tentò più volte di placare il marito e di farlo
desistere dal cacciarsi in guai ancora più grossi, ma infine, vedendo lui
sempre più irato e determinato, temendo forse un gesto di omicidio verso il
sovrano, e/o comunque per la sua incolumità, tenendo conto che lei non era
pauliciana, ma ortodossa e romana, si recò a denunciare il marito dal
funzionario addetto alle questioni pauliciane.
Con questa “chicca” Anna ci fornisce un elemento importantissimo, facendo un
pò di luce sulla complessa burocrazia romana-bizantina e sull’esistenza di un
alto funzionario, forse un ministro addetto proprio ai rapporti con la
particolare etnia armena.
Forse (ci piace pensarlo) la donna sperava con questo gesto estremo,
paradossalmente di salvare la vita allo stesso marito, magari poi graziato dopo
un certo periodo in gattabuia.
Ma qui entriamo in una sfera profonda di sentimenti e psicologie di cui non
sapremo mai, e questa è una storia e non un romanzo.
Qualunque siano state le motivazioni della domestica, il nostro Travlòs,
venutolo a sapere e temendo (a ragione) un arresto imminente, in una notte dei
primi mesi del 1084, fuggì da Costantinopoli con un centinaio di parenti e
compaesani-correligionari, radunati in precedenza (e ciò costituisce un
ulteriore indizio di una lunga e sofferta premeditazione, piuttosto che il
gesto repentino e folle di un disperato).
Travlòs e i suoi raggiunsero il fianco meridionale dell’Emo/Balcani, riattando
un’antica fortezza in rovina, Belyatovo (Veliatova, scritto Beliatoba nell’
Alessiade). Forse si trattava di parte di un sistema di fortificazioni già note
ed adoperate dai Pauliciani a difesa di Filippopoli (e della Romània
balcanica), tenendo conto di quanto accennato all’epoca della rivolta di Leka e
Dobromir nel 1078, e che la STESSA ZONA era stata il quartier generale dei
ribelli.
Ancora oggi gli studiosi non sono riusciti ad identificare con precisione dove
fosse situata esattamente Veliatova/Belyatovo, ma sicuramente doveva
controllare qualcuno dei passi montani dei Balcani, che collegano l’area a nord
della grande catena montuosa e il basso Danubio, con le pianure tracie intorno
a Filippopoli e a sud della stessa catena montuosa.
Sta di fatto che da quella fortezza, Travlòs riprese una nuova guerra romano
pauliciana (1084-1086), spingendosi a razziare e a devastare il territorio fino
a Filippopoli!
Che non si trattasse di una semplice guerriglia di briganti, lo dimostra
proprio il comportamento di Alessio che, dapprima ancora impegnato contro i
Normanni (1084-1085), e poi temendo a ragione una nuova e pericolosissima
alleanza pauliciano-pecenega come quella di Leka, cercò di trattare con
Travlòs, come abbiamo già riferito.
Ma quest’ultimo sia perché ormai era pronto a tutto, e sia forse perché si era
spinto troppo oltre per poter tornare indietro, non solo respinse le ripetute
offerte di perdono imperiale, ma come già Leka, si alleò con i principi
peceneghi stanziati sulla sponda romana del basso Danubio, e ne sposò la figlia
di uno di essi.
Insomma, appena passato il pericolo normanno, si verificò ciò che Alessio
temeva, e nella primavera del 1086 una grossa orda pecenega si unì ai
Pauliciani di Travlòs e razziò selvaggiamente la Tracia.
Questa era la ripresa di un vero e proprio tentativo di insediamento di grandi
masse di Peceneghi, incalzati a loro volta da altre stirpi turche come loro, i
Cumani, ormai impadronitisi delle steppe a nord della foce del Danubio.
Alessio inviò il suo Gran Domestico, Gregorio Pacuriano, il quale restò ucciso
in battaglia nel tentativo di prendere Veliatova.
Negli anni successivi lo stesso Alessio accanto ai generali Adriano Comneno
suo fratello e a Taticio (forse di origine turca) tentarono con risultati
alterni, di rintuzzare le orde peceneghe.
Le quali nel 1090-1091, alleatesi con l’emiro turcomanno di Smirne Çaka (1085-
1093), tenteranno di dar vita ad un blocco “panturanico” che rischiò seriamente
di distruggere la Romània.
Pericolo sventato dall’abilità diplomatica di Alessio, alleatosi con i
peggiori rivali dei Peceneghi, i sovracitati Cumani, i quali sul Monte Livunio
in Tracia, presso Enos (oggi Enez) il 29 aprile 1091 sconfisse DEFINITIVAMENTE
i Peceneghi sterminandoli in massa con modalità paragenocidarie, e arruolandone
i superstiti nell’esercito romano e stanziandoli come coloni-soldati nel Tema
di Moglena, in Macedonia.