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Le storie si sa, finiscono, anche quelle che sembravano destinate a durare per l’eternità. E, sempre più spesso, finiscono perché uno dei due partner è, seppure inconsapevolmente, alessitimico, ovvero incapace di riconoscere sentimenti ed emozioni. Un “illetterato” delle trepidazioni.
La parola alessitimia (o alexitimia), che letteralmente significa “negazione/emozione”, è stata coniata negli anni ’70 da due psicanalisti, John Nemiah e Peter Sifneos, per indicare caratteristiche di personalità tipiche dei pazienti psicosomatici; oggi, il termine “alessitimia” viene utilizzato dagli psicologi per indicare “l’incapacità di percepire, identificare, descrivere verbalmente le emozioni proprie ed altrui”, inabilità alla quale si accompagnano una capacità immaginativa ed onirica assai ridotta se non assente, una scarsa attitudine all’introspezione, una forte tendenza all’attuazione di condotte conformi a quelle poste in essere dalla massa ed uno stile di pensiero orientato all’esterno.
Le persone alessitimiche sono in grado di descrivere a parole le loro risposte fisiologiche agli eventi ma non sono capaci d’identificare i sentimenti e i turbamenti che le hanno generate: detto altrimenti, gli alessitimici vivono le emozioni per via somatica, sul corpo, ma non per via cognitiva, in quanto non le concettualizzano per immagini mentali, non comprendono i motivi per cui le avvertono e non sanno tradurle in parole.
Della serie “mi batte il cuore ma non so il perché”.
Quanto possa essere difficile avere a che fare un alessitimico appare evidente: le persone affette da questo disturbo sono, infatti, per forza di cose, egoiste, narcise, incapaci di provare empatia, poco affettive e tendenti ad instaurare relazioni di forte dipendenza o, al contrario, a cercare l’isolamento.
Riuscire a vivere una relazione interumana qualitativamente soddisfacente con un alessitimico è piuttosto difficile ed assai improbabile.
L’alessitimia, infatti, non deve essere considerata come un semplice tratto negativo della personalità passibile di cambiamento, bensì per quello che è realmente, ovvero un “deficit di competenza emotiva ed emozionale” –le cui origini vanno ricercate in un forte trauma infantile o in un rapporto problematico con la figura materna- che costituisce uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di moltissime malattie, non solo psicosomatiche (pare che esista una relazione fra alessitimia e patologie cardiovascolari, respiratorie, gastrointestinali e dermatologiche), e che, come tale, può essere curato solo da specialisti.
L’amore, la buona volontà o la “vocazione da crocerossina/o” non bastano, insomma.
Anzi, gli alessitimici, essendo incapaci di partecipare “emozionalmente” alle sedute di terapia e preferendo le azioni dirette alle parole, possono risultare molto difficili da guarire anche per i professionisti della mente, che devono fare un lavoro davvero grosso per “insegnare” loro a percepire le emozioni e a tradurle in parole.
L’incapacità di esprimere verbalmente le proprie emozioni, anziché essere la conseguenza di un’eccessiva timidezza o della paura di esporsi o di essere feriti, può dunque celare un vero e proprio disturbo, che è significativo individuare e curare, in quanto capace di compromettere irreversibilmente le relazioni sociali.
“L’emozione non ha voce”, cantava qualche anno fa Adriano Celentano: va bene, ma patto che non sia per via dell’alessitimia.
Articolo di Dalila Giglio