Alex aveva vent’anni – racconto

Da Thefreak @TheFreak_ITA

Alex non aveva mai fatto nulla di utile nella sua vita. Né di inutile, a dirla tutta.

Era un essere svogliato e incostante. Nella sua mente soggiornavano memorie di un passato non suo, prima di Woodstock e tutto il resto. Tutto ciò non aveva nessun significato, ne era consapevole, ma non poteva farci niente.

Alex credeva che la sua vita venisse costantemente guidata dalle mani di un burattinaio. Dall’alba al tramonto si domandava chi fosse e perché fosse lì, dovunque fosse.

La mattina nuotava nel vuoto, immerso nella sensazione di benessere lasciata dal sonno, quella che lui chiamava Percezione Dell’Infinito.

Il pomeriggio invece imitava Jack White, sovrapponendo la sua voce a quella del noto cantante, che sbucava acida, fuori da due vecchie casse. Oppure sputava i semi degli acini d’uva giù dalla finestra, addosso ai passanti; spesso non ingoiava nemmeno la polpa.

Se Alex aveva la luna storta era fottuto, così come lo erano tutte le persone che lo circondavano. In queste giornate aveva la brutta abitudine di mettersi a urlare per un nonnulla o di decidere di scaraventare qualsiasi oggetto in qualsiasi direzione, senza pensare alle conseguenze. La cosa più interessante della faccenda era la cattiveria delle sue parole, spesso pronunciate in un finto ma verosimile latino.

Nessuno lo cacciava via di casa, perché era un essere buono. Aveva una madre, un fratello, quattro sorelle.

Alex non lavorava, non studiava. «Cosa fai nella vita?», gli chiesero una volta. «Studio il vagare della polvere nell’aria», rispose lui.

«Un altro giorno è morto», bisbigliava spesso nel buio della sua stanza, prima di addormentarsi.

Ogni tanto immaginava quanto segue: un uomo di grossa stazza veniva a svegliarlo presto, molto presto, tirandogli una secchiata d’acqua gelata. Dopo averlo schiaffeggiato sulla faccia umida e denudato per benino lo portava giù in strada tirandolo per i lunghi capelli. Lui ne godeva.

Ad Alex piacevano le ragazze grasse con i seni grandi. La sua ultima ragazza, Lucilla, purtroppo aveva delle tette piccolissime, così avevano rotto.

Una sera andò a mangiare un hamburger in un posto che a lui piaceva, una topaia poco illuminata, una specie di mc donalds per emarginati. Lucilla era là, con un’amica. Alex si andò a sedere al loro tavolo, con il proposito di infastidirle. Mangiò il suo hamburger in trenta secondi, Lucilla invece lo lasciò quasi tutto sul piatto. La sua amica non aveva nemmeno ordinato, succhiava solo la cannuccia della sua coca, tirando su con ostinazione il liquido scuro che ormai scarseggiava. Alex si offrì di finire il panino di Lucilla, e prese pure un sorso della sua aranciata. L’amica di Lucilla invece si arrese ben presto alla realtà dei fatti, ovvero che la coca era finita; smise, pertanto, di tormentare quella cannuccia. Aveva i capelli corti e la quinta di reggiseno. Si chiamava Rita, faceva la commessa in un negozio di scarpe.

La sera successiva andarono a bere diverse birre, Alex e Rita. Fu lui a baciarla, all’improvviso, mentre attendevano che il cameriere portasse il terzo giro di schiuma bionda. Lei ebbe un po’ di disgusto, a causa delle labbra appiccicaticce di Alex. Poi bevvero e si ribaciarono. Alex aveva paura di metterle la lingua in bocca, lei non sembrava gradire. Improvvisamente la mano di Rita si nascose tra le gambe di Alex, senza che lui potesse avere il tempo di capirci qualcosa in tutto quello.

Rita era tremendamente noiosa, giochetti a parte. Alex non tardò molto ad accorgersene.

Alle tredici zero cinque di un paio di giorni dopo, o forse di un paio di settimane dopo, estraendo patatine alla paprika da un tubo arancione, Alex si mise a ragionare su quale fosse la maniera più appropriata per fare una cosa che doveva per forza fare, cioè lasciare Rita. Voleva abbandonarla al suo misero destino, senza pietà, inventando una cazzata, una di quelle enormi. Optò per un lungo ed esauriente sms attraverso il quale riuscì nell’impresa di comunicarle, in cinquanta battute spazi inclusi, che aveva un cancro ai testicoli. Fece qualche riflessione acuta, per giustificare a se stesso l’azione appena commessa. Qualche istante dopo decise di fregarsene e accese la tele.

C’era un vecchio film degli anni quaranta, lo vide fino a quando non ne fu sazio. Poi si buttò dal quinto piano, dopo aver scritto due righe su un tovagliolo.

Alex aveva vent’anni. Fu ucciso da un vecchio burattinaio, stufo di manovrarlo. C’era scritto così sul tovagliolo che aveva attaccato al frigo con la maionese divenuta colla per l’occasione.

Già, quel dannato frigo. Faceva degli strani rumori, era un pezzo d’antiquariato ormai. Eppure di notte lo aiutava a prendere sonno con quel suo brusio, e non solo di notte.

Si svegliò di soprassalto a causa del trapano che bucava la parete. Erano quegli stronzi dei vicini che appendevano l’ennesimo quadro raffigurante l’ennesimo paesaggio.

Quel film in bianco e nero non era ancora terminato. Si accorse che si trattava di una pellicola di Hitchcock interpretata da Ingrid Bergman. Aveva visto diverse volte quel film. Attese fino all’apparire della scritta The End, poi spense.

Erano le quattordici zero cinque. Era già pomeriggio. Entrò in cucina, aprì il frigo, prese dell’uva. Infine fece quello che faceva sempre.

di Antonio Chisari All rights reserved

Nota biografica dell’autore

 Sono Antonio Chisari, ho venticinque anni e come il 99% degli esseri della mia età non ho un lavoro, perlomeno non uno “serio”. Vivo nella terra di Giovanni Verga e Franco Battiato, eppure qualche volta mi chiedo: e se fossi nato in Inghilterra?

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