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Alex e babbo Natale

Da Stesan74
Ebbe inizio la sua notte di Natale.
Consumato l’ultimo dattero e dopo i rituali giri di tombola celebrati tra gli sbadigli, la famiglia si era congedata; lui però non aveva intenzione di infilarsi a letto. Si godeva le braci del camino, le lucine che proiettavano ombre di festoni contro il soffitto; e poi il suono morbido dell’orologio in cucina e qualche maestosa folata di vento, sul balcone.
Era il suo Natale. Voleva ripensare a come lo viveva da bambino e per farlo doveva concentrarsi parecchio, perché bambino non lo era più da un pezzo. Aveva persino scritto la letterina a babbo Natale.
Già. L’aveva fatto di nascosto, si capisce, e aveva spedito a un indirizzo preso su internet che si spacciava per il vero recapito di Santa Claus, in Finlandia. Aveva richiesto una di quelle pistole ad acqua che sembrano uscite da un cartoon di Capitan Futuro, con un serbatoio a forma grossa supposta e lo stantuffo per caricare. Non era tanto per chiedere. Era un desiderio vero. Un capriccio che si portava dietro da bambino e che non aveva potuto soddisfare perché i suoi non gli compravano mai un cazzo.
Ravvivò le braci. Sentiva freddo alle spalle. Il soggiorno era troppo grande e i termosifoni erano sempre spenti. Era convinto che il suo vecchio evitasse di accenderli per fare un torto a lui. Dopo che il magistrato di sorveglianza gli aveva accordato il permesso di trascorrere il Natale a domicilio, si era domandato se valesse la pena tornare in quella casa dove ormai riceveva ben poca considerazione. Ma quali alternative aveva? Inchiodarsi a una finestra, a fissare il cortile con le magre betulle e fumare una sigaretta dopo l’altra. Oppure giocare qualche spicciolo a poker con i soliti tre e infine ritrovarsi solo, nella cella, a pensare alla troppa fretta di crescere. Almeno tra quelle pareti ritrovava il senso di protezione, anche se ci riusciva a tratti e soltanto quando i suoi lo lasciavano in santa pace. Ma era come rivedere bel film, diavolo. Rivederlo davvero, invece di spremersi le meningi per ricordarsi le scene.
Il vento urlò dietro il balcone. Vetri e infissi cigolarono. Il rumore tradì la sua memoria e lo sospinse davanti alla finestra dell’ambulatorio comunale, la sera che l’aveva scassinata insieme a Franco Arpagone. Tutto per le qualche scatola di Diazepam da girare a quel tossico di merda di Lancillotto. Solo che nell’ambulatorio c’era il medico di guardia; aveva spostato la branda perché era un fanatico del Feng shui ed era convinto che quella parte di edificio fosse più propizia al sonno. Tanto propizia che in verità non aveva chiuso occhio, il bastardo.
Poi il ricordo accelerò: la faccia sgomenta di quel grassone, i suoi ululati dopo la testata con cui gli aveva spappolato il naso come un acino d’uva, le finestre circostanti che s’illuminavano in sequenza; e i carabinieri, l’indomani, che lo pizzicavano mentre acquistava un biglietto per Brindisi. Perfino la voce da papero di Cesare Rangone, un compagno delle medie che aveva confermato la sua precoce antipatia facendosi sbirro. “Ehi, Alex, tagliamo la corda?”
Un tintinnio di vetri era bastato a ricondurlo all’origine dei suoi guai: ecco in quale stato era ridotto il suo sistema nervoso!
E non bastava. Ci fu un nuovo scossone. La portafinestra sembrava masticare ghiaccio. Era tentato di tapparsi le orecchie, ma notò qualcosa. La sua mente era fin troppo incline a certi segnali: in quel momento non soffiava il vento e lo scricchiolio degli infissi aveva una cadenza regolare.
Spostò la sedia all’indietro e si alzò, riflettendo meccanicamente sulle probabilità un tentativo di effrazione, che erano tutte a sfavore: escludendo le sue imprese, nella storia del villaggio non si contavano precedenti di furto con scasso. Il balcone era al terzo piano, troppo scomodo, e per di più era Natale: solo un pazzo poteva concepire un furto proprio quella notte, mentre erano tutti rintanati dopo la strage di vongole e capitoni.
Eppure, i suoi occhi si fissarono sulla tenda davanti alla portafinestra. Filtrava il chiarore della luna da dietro il garbuglio di nubi. E nel riflesso vide muoversi qualcosa. Prima di realizzare che somigliava a una figura umana, gli infissi si aprirono e la tenda si gonfiò. Fece un balzo indietro trattenendosi dal gridare - prevalse l’istinto di non svegliare la famiglia: ne venne fuori un secco “Ohù!” smorzato dallo stupore. La figura si sbracciava per liberarsi dalla tenda. Alex si guardò intorno alla ricerca un’arma e vide il portacandele d’argento sul tavolino accanto al televisore. Ai bei tempi aveva pensato di andarlo a vendere, ma era un lascito di una certa bisnonna e i suoi lo avrebbero scannato peggio che se avesse ripulito la cassetta delle offerte in chiesa. Il tempo di agguantarlo - e l’intruso fu nel soggiorno.
Eccolo. Alex ne fu costernato più che terrorizzato; brandiva quel portacandele e quasi dimenticava di averlo, mentre la temperatura del soggiorno precipitava per via della portafinestra spalancata da cui irrompeva odore di neve e di muschio.
Il tizio era grasso come il medico di guardia, ma parecchio più alto. Un vero mastodonte con barba e capelli bianchissimi, e un cappello elfico appollaiato in cima alla testa. Indossava un gilet vermiglio su camicia chiara e delle strettissime braghe con un paio di stivaletti dalla punta all’insù.
Gettò un enorme sacco in mezzo alla sala, si pulì le maniche imprecando qualcosa come “andomai una terrazza o un balcone lindo!”. La voce tuonava come una burrasca lontana, e conteneva la stessa implicita minaccia.
Alex si spostò di lato, con la cautela di Ulisse al cospetto di Polifemo. L’orco iniziò a rovistare nel sacco e intanto berciava: “Vediamo un po’… Balboni, no Balbucci, aspetta aspetta… Cristo d’un Dio, come si chiamava questo qui?” e la voce ciclopica echeggiava in quella bisaccia come nei meandri di una grotta.
“Bardonucci,” disse istintivamente Alex.
L’orco si immobilizzò, con la testa infilata nel sacco. “Ehm…” fece, sollevandosi pian piano, e quasi trasalì nel vedere Alex in fondo al soggiorno.
“Ma Dio di un Sant’iddio, ragazzo! Che ci fai qui?”
Lì per lì Alex non rispose. Strinse il portacandele e fissò a bocca aperta quell’enorme barba che gli precipitava sul ventre assorbendo i riflessi da luna park dell’albero; cercava di capire se quegli occhi fossero aperti o chiusi, dietro gli occhialini poggiati sul naso arrossato, ma soprattutto se lui stesso fosse sveglio oppure nel mondo dei sogni.
“Dovresti essere a nanna, maledizione!” ribadì l’intruso.
“Ma tu… chi cazzo sei?” disse Alex con un filo di voce.
Il grassone fece scattare la testa all’indietro, come se avesse ricevuto un colpo invisibile. Puntò l'indice e intimò: “Non usare quelle parole con me, moccioso!”
“Ma ti sei fatto una pera?” ribatté, avvertendo il fastidio sostituirsi allo stupore. “Ti sei ficcato in casa mia e mi fai anche la paternale? Esci immediatamente da qui o ti scasso il grugno con questo,” esibì il portacandele proprio mentre le lucine erano tutte gloriosamente accese. “Avanti, fuori dalle palle!”
L’orco non fece una piega. Fissò un momento il portacandele – e Alex si rese conto di quale ridicola arma appariva contro quella testaccia – si lisciò la barba e scoppiò in una fragorosa risata. Lui sobbalzò. Temeva che i vecchi si sarebbero svegliati e corse a chiudere la porta che accedeva alla cucina.
“Cazzo ridi!”
Ma l’orco continuava a sbellicarsi, tenendosi la pancia.
“Piantala!” si avvicinò alzando il portacandele.
Il grassone mise le mani avanti. Erano guantate di bianco, curiosamente piccole rispetto al corpo massiccio. “Ehi, no, no, calma ragazzino!” le gote si arrossarono mentre placava l’attacco di risa. “Scusami, ma è la prima volta che mi scambiano per un ladro.”
“Perché cosa sei, il segretario comunale? E non mi chiamare ragazzino.”
“Proprio non mi riconosci?” adesso era l'altro a mostrare sorpresa.
“Come diavolo faccio a riconoscerti dietro quella barba di lana e tutti i cuscini che ti sei cacciato sotto i vestiti?”
“Ma non è un travestimento!” esclamò l’intruso. “Io sono l’unico, il vero, l’originale Santa Claus. BABBO NATALE!” e fece un gesto da cabaret - braccia larghe in leggera diagonale, come la star che si presenta al pubblico.
Alex sospirò. “Senti, ti ho già detto che non ho la più pallida idea di chi diavolo sei, i miei complimenti per il travestimento e sta sicuro che non ti denuncio. Ma ora levati dai coglioni altrimenti mi costringi a chiamare gli sbirri, e ti dico che il solo pensiero mi fa venire l’orchite.”
Ma era tornato a rovistare nel sacco. “Bardonucci, hai detto?” Si udì un tramestio di oggetti spostati e ammucchiati. Il corpo mastodontico si infilò ancora più in fondo: l’enorme sedere occupò l’intera apertura del sacco, i piedi si staccarono addirittura dal pavimento e Alex spalancò gli occhi nel vedere quelle gambe scalciare nell’aria mentre l'intruso si calava a testa in giù, sbraitando con voce nasale: “Dove beatiddio l’ho infilato, dannazione…”
Era una visione talmente grottesca che il portacandele gli cadde dalle mani e rimbalzò sulle mattonelle. Alex fece alcuni passi all’indietro, si bloccò contro la porta chiusa e fissò quella scena impossibile.
“Ahh! Trovatooo!” tuonò il mostro.
Le gambe si piegarono e i piedi ritrovarono il pavimento. Si sollevò dal sacco tirandosi dietro una scatola infiocchettata con nastro rosso; quindi raccolse la barba, che si era per metà attaccata a un orecchio, e allungò il pacco ad Alex.
“Ecco il tuo regalo ragazzo. Quel che hai chiesto. E con tanti auguri di buon Natale.”
Lui la prese - ma era su altro pianeta.
“Su, apri!” lo esortò il grassone. “O vuoi aspettare domattina?”
Con gesti dapprima misurati, alternando sguardi perplessi al pacco colorato e all’intruso che lo teneva d’occhio con quelle gote da ubriaco, poi via via più decisi, Alex strappò la carta regalo e mise la scatola alla luce ammiccante dell’albero.
‘Timbri di Storia – 20 personaggi tutti da colorare.’
Non capì. Lesse più sotto, i caratteri tondeggianti dicevano: ‘Scopri la Storia d’Italia con tanti protagonisti da stampare e dipingere. Sono compresi 10 sfondi storici, il tampone d’inchiostro e la tavolozza dei colori.’ Le immagini dei timbri mostravano un allampanato Giulio Cesare con laticlavio e corona d’alloro, un dante Alighieri col naso a becco, un fosco Giuseppe Mazzini con le mani dietro la schiena. C’era perfino un ingobbito Andreotti che pareva uscito da una favola nordica, non fosse stato per gli occhiali.
Alzò lo sguardo all’intruso: “E che diavolo è?”
"Il regalo che hai chiesto.”
“Un par di palle!”
“Eh?”
“Non ho chiesto queste carabattole!”
L’orco si fece serio. “Mi prendi in giro?”
“Ti dico che ho chiesto un’altra cosa, puttana ladra!”
“Ti ho già avvertito di moderare i toni, ragazzo.”
“E io di non chiamarmi ragazzo.”
L’intruso si piazzò i pugni chiusi sui fianchi. “Io non mi sbaglio mai,” dichiarò.
“E si vede che stai perdendo colpi. Nella lettera avevo chiesto una WaterGun professional da 3 litri. Un portento capace di annegarti. Una vera e propria arma letale. Non certo queste cagate,” e lanciò la scatola verso il camino, dove rischiò di finire tra le braci.
“Mostrami copia della lettera,” disse il panzone incrociando le braccia.
“Mi prendi per il culo? Non ho fatto la pratica al comune, che copia vuoi che abbia?”
“E allora ti becchi i timbri di Storia, caro,” tagliò corto l’orco, e iniziò a stringere il cordone dell’enorme sacco.
“Ma che razza di discorsi sono?”
“E’ la regola. Toccava a te dimostrare l’errore.”
“Hai appena detto che non c’è mai stato uno sbaglio e ora tiri fuori una regola?”
“Appunto,” rispose il panzone; afferrò l’imbocco del sacco e con un gemito se lo buttò sulle spalle. “Mai uno sbaglio. Perciò devi dimostrare tu quest’incredibile inedito.” Si voltò verso Alex e sollevò le spalle in finto rammarico. “Va così, ragazzo.”
Gli montò il sangue alla testa. Afferrò il portacandele che giaceva sul pavimento e lo sollevò verso quel faccione rubizzo.
“Da qui non te ne vai se non molli una WaterGun!” ringhiò.
Il vecchio fissò il portacandele come fosse un animale morto - un misto di incredulità e disgusto si mescolò in quegli occhi simili a castagne.
“Ehi, che ti salta in mente?”
Per tutta risposta Alex fece per sbatterlo sul viso barbuto. Fu qualcosa di più di una simulazione: brandì l’oggetto tanto vicino al nasone che l’orco si ritrasse con uno strillo: “Diòdunsanto!” e il sacco gli scivolò dalle spalle.
“Sta sicuro che ti rompo la faccia!” minacciò lui con voce arrochita. “Non voglio quei cazzo di timbri. Tira fuori la pistola!”
“Ma non credo di averla!” protestò l’altro, gli occhi che saettavano sul portacandele scintillante di riflessi gialli e verdi e rossi. “Nessuno l’ha richiesta e non so proprio come…”
“Non me ne frega un accidente. Sono problemi tuoi.”
“Ti dico che non ce l’ho!”
Di nuovo levò il portacandele, con un’espressione di tale ferocia che l’orco strabuzzò gli occhioni portandosi una mano al petto e rischiò di piombare sul pavimento.“Va bene, va bene, guardo nel sacco!” si affrettò a dire.
”Bravo.”
Scrutando il giovane con risentimento, slacciò il cordone e infilò una mano. Spostava oggetti e scuoteva il capo con pessimismo, mentre Alex osservava senza dire niente, determinato a ricevere la sua pistola.
L’intruso tirò fuori un pacchetto colorato. “Può andar bene un set di siringhe giocattolo? Puoi riempirle d’acqua e spruzzare la gente.”
“No.”
Ripose il pacchetto e continuò la ricerca. Alex abbassò leggermente il portacandele, avanzando di un passo. Avrebbe voluto dare un’occhiata al contenuto di quella bisaccia ma non osava chiederlo. Il panzone si spinse ancora più giù: “Una pistola laser?” azzardò.
“Tienitela.”
Era una questione di principio. Desiderava la WaterGun da una vita e nessuno si era mai offerto di comprarla per lui. Per la verità adesso ricordava di aver desiderato tante altre cose; ma capiva di aver perso l’abitudine a coltivare i desideri, tale era la convinzione di non poterli mai realizzare, perché tutti coloro che ne avevano il potere si erano dimenticati di lui. Tutti. Genitori, assistenti sociali, autorità giudiziarie, perfino gli amici di una volta. Avevano bollato la sua esistenza come irrilevante e con essa tutti i suoi sogni.
“Una barca a vela?”
“No-o! La WaterGun Professional, bellezza. Quella da tre litri.”
Il vecchio si tirò su. Aveva l’aria di un giocatore stanco di bluffare. “Ma Sant’iddio! Devo chiamare i folletti a quest’ora?”
“Chiamali, che aspetti?”
“Saranno tutti in giro. Il loro lavoro è finito.”
“Chiamali!”
Sbuffando e imprecando tra i denti, si sbottonò il gilet e infilò una mano nella tasca interna estraendone un telefono poco più grande di un biglietto da visita, ma altrettanto sottile. Compose un numero, si piazzò il telefono all’orecchio.
Dopo una ventina di secondi iniziò una conversazione in lingua aliena, una specie di fluente cinguettio che a tratti si arrestava e poi riprendeva senza variazioni. Alex ne rimase affascinato. Sembrava che il panzone stesse bisticciando. Ora alzava la voce, il cinguettio diventava un gracchiare nervoso, ora si addolciva in un gorgheggio di usignolo. Il giovane si avvicinò cercando di capirci qualcosa e l’orco pigolò, conciliante. Fece di sì con la testa, trillò con fare comprensivo… Alex abbassò il portacandele, completamente rapito dalla conversazione che si avviava al termine. Il panzone si profuse in ringraziamenti starnazzanti, tubò di saluto e chiuse la telefonata. Incrociò gli occhi del giovane, che lo osservava a bocca aperta, quindi garrì come un gabbiano all’attacco di una sardina e gli mollò un pugno in piena faccia.
Finì sul pavimento sbattendo la testa. Per svariati secondi oscillò sull’orlo di un pozzo scuro dove rischiò di precipitare svenendo. Confusamente adocchiò il panzone che stringeva la corda del sacco e se lo issava sulla schiena preparandosi a filare dal balcone. Lui tentò di sollevarsi sui gomiti. L’orco scostò la tenda e spalancò del tutto la portafinestra; mise un piede sul terrazzo… e l’altro finì tra le mani del giovane, che lo tirò a sé con tutta la rabbia che gli era esplosa in corpo. “A’ istola azzo!”, mugugnò.
L’altro uggiolò per la sorpresa e il panico, scalciò furiosamente ma Alex non mollò la presa. Aveva gli occhi inondati di lacrime, un formicolio spinoso sulle labbra come se ci fosse un insetto che agitava le zampe. L’orco abbandonò il sacco e tentò di voltarsi, prima da un verso, poi dall’altro, e il risultato fu che precipitò a terra – a quel punto il giovane gli saltò sopra. Uno schiaffone e volarono gli occhiali. La barba si sfilacciò tra le dita che tiravano. Ma il panzone reagì con una scrollata tellurica che lo scalzò facendolo ruzzolare all’indietro: Alex batté nuovamente la testa.
Adesso era l’intruso a ribollire: gli venne sopra torreggiando come una divinità. Sfoggiava lo sguardo stralunato di un energumeno in piena crisi. Aveva afferrato il portacandele, lo calò sulla testa del giovane; lui ebbe la prontezza di rotolare di lato e l’impatto sul pavimento echeggiò come un rintocco di campana. L’orco lo inseguì con il braccio levato, sembrava un gigante a caccia di un topo. Il giovane sbatté su una sedia e poi sul porta riviste, che si rovesciò, e continuando a rotolare finì contro la base dell’albero di Natale. Afferrò i rami di plastica più bassi e tirò con tutta la forza: l’albero si abbatté sull’intruso, ed entrambi precipitarono sul pavimento in uno sfascio di addobbi, luci, barba e cappello a punta.
Seguì un intervallo in cui respirando a fatica, con il cuore che risuonava come il tamburo di un sacerdote africano, Alex cercò di rimettersi in piedi. Quando infine vi riuscì guardò l’albero e la poltrona, spazzò tutto il soggiorno con gli occhi, ma del maledetto panzone non c’era più traccia.
Poi vide la portafinestra e percepì un suono di campanelle che svanivano nell’aria notturna. Si era portato via anche i timbri di Storia.
Era tornato nella sua cella. Tutti dicevano che era fortunato ad avere una gabbia tutta sua, il magistrato aveva disposto così per via della sua pericolosità presunta. Se ne stava disteso in branda, una mano dietro la testa, a riflettere sulla troppa fretta di crescere che aveva sempre avuto. A fare i conti con la fanghiglia torbida che gli passava per la testa. E a capire se la storia del panzone era reale o s’era sognato tutto perché aveva ricominciato con gli allucinogeni - ma non li prendeva più da secoli, e l’albero l’aveva sollevato realmente da terra e rimesso a posto illuminazioni e festoni compresa la stella in cima, ma forse s’era immaginato ogni cosa perché non aveva dolore alla bocca e nessun bernoccolo fra i capelli e del resto com’era possibile che con tutto quel casino nel soggiorno papà mamma e Adele non s’erano svegliati, ma chissà se davvero poteva raccontare la storia a qualcuno ma a chi, non potevano credere a un debosciato senza futuro buttato nella cella sudicia, non c’era posto per lui, non c’erano cortili di magre betulle dove parlare ai compagni, non Franco Arpagone, non i vecchi, non gli assistenti, non la sua coscienza sospetta, ma perché nemmeno la WaterGun del cazzo? Voleva realizzare un sogno innocente almeno una volta perché l’unica cosa che davvero aveva desiderato quella notte di Natale era ritrovare Alex bambino, per ricominciare? No. Per chiedere scusa al mondo? No. Per affrontare il ritorno in carcere? Nemmeno. Era soltanto per sapere che in giro c’era un Alex più umano, tutto qui, per farlo sapere al suo cuore, tutto qui,
Un rumore interruppe quei pensieri. Un cigolio di serratura. Alzò la testa e notò la porta che si apriva. Non erano previsti controlli a quell’ora. Nelle celle dormivano tutti e forse anche i secondini erano nel mondo dei sogni.
Eppure vide quella figura entrare, mentre il suo cuore accelerava. Una figura femminile, filiforme, vestita di scuro e curva come una vecchia falce. Una faccia rugosa dentro un fazzoletto, con ciuffetti di capelli che biancheggiavano da sotto l’orlo.
Dio Santo, pensò lui. Ci risiamo!
Un sorriso sdentato baluginò tra il naso e il mento della figura. Fece cadere un sacco nero davanti ai piedi, più piccolo di quello del panzone, e disse con voce tremula: “Watr… Wo… WaterGun?”
“Professional,” specificò Alex in tono neutro.
La figura aprì e rovistò con gesti lenti. Poi si arrestò, guardò Alex e assentì soddisfatta.
Estrasse la pistola. Lui vide all’istante che non era affatto la WaterGun.
Certo. E quando mai!
Anche nella penombra rischiarata appena dalla lampadina sopra la sua testa, ne sapeva abbastanza di armi per accorgersi che la megera stringeva una Browning semi-automatica da 9 mm. Un modello vecchio come il cucco, con un caricatore da 13 colpi, che lei armò e gli puntò in faccia.
“Con tanti saluti dal mio amico,” annunciò; e stavolta la voce era salda, velenosa.
Prima dello sparo, Alex si disse che mai più avrebbe accettato di fregare medicine per un bastardo di drogato.

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