Alcuni di questi testi erano apparsi nell’ultimo numero del semestrale LA MOSCA DI MILANO, prima della sua sospensione. E’, appunto, per mezzo della rivista che conobbi l’opera di Alfredo, allora pubblicata in antologia da Hebenon. Rimasi colpito dallo stridore acidulo dei versi di De Palchi, “torrione decrepito con la campana stanca / di crepe elettrificate”; dalla commistione tra vita e scrittura e mi fu chiaro subito che, quando leggiamo, non si tratta quasi mai di scegliere libri che ci accarezzano la vita ma che, piuttosto, la spingano contro un muro.
Questi testi confermano lo stridore che avevo avvertito, ma anche una sfacciataggine del dire che molto corrisponde alle parole dei bambini, costi quel che costi: “se vuoi eccomi in piedi / e guarda pure dentro l’occhio pesto dal troppo vedere”.
E poi un fortissimo accento sensoriale, fisico, dotato del fiuto animalesco dei lupi nella foresta, di notte, che spesso porta a storpiare le parole – parola decorticata, dicevo in un altro mio scritto -
Diretta conseguenza, quindi, di una scrittura così petrosa – si prenda il riferimento anche in senso storico – è che essa si pone in frizione con l’ipocrisia del vivere e dello scrivere, quando la vita non sia espressione di una pienezza di vita, e scrivere non sia espressione di un testimoniare la resistenza: “Idi di marzo / di vili usciti dalle fogne con coltelli / nel grembiule di macellai / da infilare nella mia schiena di giulio” .
La cosa che colpisce in questa scrittura è la capacità di mantenersi orgogliosa e alta, e sprezzante, dotata di un piglio “sociale” privo di fronzoli, molto vicina alle invettive dantesche, attualissima, quindi, se si voglia pronunciare a voce alta, e non nella forma della cronaca ma della migliore poesia, una formula di maledizione contro la bestia che abita il cuore degli uomini.
Sebastiano Aglieco
DALLA NEBBIA
2008
Alfredo de Palchi
Non sempre in ginocchio . . .
diritto sarei il torrione decrepito con la campana stanca
di crepe elettrificate
se vuoi eccomi in piedi
e guarda pure dentro l’occhio pesto dal troppo vedere
*
Perché mani . . .
fredde dal cercare lungo le siepi di notte
l’umido della chiocciola
insanguinate ad affrescare in colore di fiamma
faccia e petto quando risucchiano dall’universo
luce che emana altra luce che ne emana un’altra
nell’abisso imponderabile
alcun maleficio si addensa nella mia rétina
per quante vie esplorabili
lasci esplorare il continente . . .
*
Fatica di vita nella perversità
di chi cede per orbità di eguaglianza
di attraversare il ponte sul fiume in secca
quanto in disintonia si grida attorno il torrione
con il gridío fluttuoso dei rondoni a tuffo. . .
*
Rivoluzione radicale
sradico le gramigne con violenza di mente
l’immonda repubblica d’europa con i suoi roditori
che la civilizzano di esequie
brancolo nel buio bevendo gocce di roccia sirenica––
in me non c’è la mia morte
c’è quella che dispenso e c’è il silenzio degli untori
sul mio paradigma
illuminato dal sole che sbatte vento contro la finestra
il terrazzo di rumori come un areoporto di paese––
non si muove un’ombra tra i veicoli incanalati sulla stessa strada
salire al ponte e scendere in fila per destinazione san vito *
veicoli che in spirito hanno la fatica dei macilenti asini muli
e cavalli dei carri funebri
l’uomo bestia rifiuta di arare
stando ugualmente con il muso basso di avaro . . .
dovunque scorrono topi vittime minuscule della violenza biblica
* nome di cimitero
*
Figura che scruti dalle colonne egizie
per te sono il rammarico il fuorilegge
di un fuoriluogo della specie––
ferrami nei cunicoli antichi e nelle sabbie con il metallo
se sei la pietra sirenica tra le petraie degli assiri
il ferro della corona sanguigna
ti vola intorno l’insetto per fissarsi sul viso
che arcobalena di tempeste di sabbie e siccità
all’acqua del tuo corpo esteso.
*
Idi di marzo
di vili usciti dalle fogne con coltelli
nel grembiule di macellai
da infilare nella mia schiena di giulio
che da oltreoceano con intelligenza conquisto arte
e calpurnia ancora nel mistero della sua casa
non stringo mani insanguinate per macchiarti appena
ti raggiungo per rotolare insieme lungo la via
imperiale di archi musicali
poi non “si muore”
perché dalla gola smercio lo sputo definitivo . . .
*
Trema la terra della pagnotta nella mia terra
scossa da bifolchi
si riconoscono nel sangue barbaro che insozza
e in chi sciacqua il coltello nell’adige
che scorre tra la dissoluzione dei ponti l’eroica
viltà degli sfuggenti dal cranio sfuggente
prima del vagito segui gli eventi di amata alla deriva
nella corrente fluviale butti i fiori e struggente
corri tra la casa e la tomba di giulietta
le costole diventano pietre di procida
la volontà della mente frantuma la muraglia
ed è mediterraneo che diluvia sale
europa delenda est
non per tua causa di amata che tra dissidi
e onori errati eviti l’amato
invano lo disconosci come aberrazione girovaga
del tuo longineo corpo tellurico
delenda est per te oppure
rinascita après le déluge d’avril nelle venezie.
*
Nei territori di amerigo il nuovo homo humus
pellerossa quanto la terracotta
s-centrato dal dottor calligaris
con olio di serpe unge e avvelena i funghi cosmetici
che cucini per cibarmi di orizzonti
a rasoterra dove l’humus cresce di vomiti
e violenze di predatori in camicia bianca
nell’antica ciotola di terracotta si raggruma
acqua piovana polvere del deserto
semente arida che svuoti all’alba––
con mani di penelope
mi sfili attorno filo di lana per giacere
nella barca di fiume stretti dalla nostra ombra
l’onda veloce dopo onda ci srotola sulla riva frastagliata
due statue di terracotta con la conchiglia falsa all’orecchio.
*
Il lavoro nobilita la belva alla vita
trascorsa a grattare il salario della paura
in una giungla di lapidi
si legge qui giace dio il mediocre costruttore
e qui cleopatra con una serpe in mano–– giglio offerto a marcantonio
e più in là giace un raccolto di ossi
attribuito al farabutto grande amico françois
accanto a quello di francesco impazzito di cristo
e della sua chiara che per boschi giunge a todi da jacopone
più folle di tutti
e laggiù sotto quel rettangolo di letame
l’altro mio amico arthur giace con un abbraccio di zanne invendute
amata amica figlia madre sorella
prontamente perfetta per il mio arrivo
allatta al tuo ombelico il mio spartito di terra.
*
. . . “per piacere” . . .
fine di come si sfoglia la margherita
mi ama non mi ama
per piacermi levigata nel fiume da sabbia sassi piante
tronchi d’altopiano scesi con la neve
ed io incredibile nell’acqua di gennaio ti pesco
carpa stanca
di sguizzare tra lastre di ghiaccio
ora che il sole di aprile scioglie l’inverno
lo spettacolo collinare della tua figura emerso
dalla neve e dalle correnti del vento
è l’ansa di maggio o di mai.
*
Decenni prima della scienza
mi previdi 140 anni di vita
ma che ne bastano 120––
la biologia
ragiona di poesia a me che intuisco lunga vita a lei
santità che invoco a bocca aperta
con armonia terapeutica contro la mia morte
che mi assiste mentre rantolo a desiderare
la polveriera.
*
Di pomeriggio traccio righe di fuoco scordate nel nulla
dove le cerco . . . per non riscriverle a memoria
avrebbero un segno diverso
della prima riga d’apertura
“ti scrivo con mente pornografica
il corpo è pornografico” . . .
poi niente di pornografico forse un inno
da scoprire con il mio precetto di carni esaltate.
*
Bastano se entri nella stanza
convinta di stare subordinata
ma so che il tuo corpo è la stanza reale
dove si annullano le reticenze dove
il leccare di bestia la pelle lacustre
ti trascina a crollare l’estetica di femmina
a occhi che luccicano nei capelli lussuriosi––
che nevichi pure.
*
Gente corre al lavoro . . .
io mi accingo a lavorarti addosso il macigno al sole
la quercia a rami che ti legano le braccia ad altri rami
sopra un letto di sassi
sulla sponda obliqua del fosso
sotto un temporale di acquate grandine lampi tuoni in un campo
arato ––a tua scelta
o nella casa diroccata.
*
Ottobre di pomeriggio freddo di pioggia
di foglie che spiccano voli da raffiche di vento sotto alberi
che passano accanto tra panche deserte . . .
in simili giorni abito il parco di union square dove
la folla indecente al bel tempo
mangia beve vomita e abbandona all’erba e alle piante
cartocci plastica giornali sputi
da disgustare i piccioni . . . e canestri vuoti di rifiuti
a nord in alto sul piedestallo Lincoln
è il turista slavato che porge
grani a uccelli invisibili––
lo ringrazio con un saluto di mano
a sud washington a cavallo rifiuta l’entrata
alla marmaglia nello sguazzo
strappando le ombrelle––
lo ringrazio con un saluto di mano
a east il desolato lafayette mano destra al cuore
con la sinistra indica al suolo la saving bank
di fronte in greek revival fallita––
lo ringrazio con un saluto di mano
a ovest miriam con jesus in braccio gorgoglia dallo spicchio
d’acqua “preparati per la scalata” . . .
io che capisco se mi interessa di capire mormoro
“su per il tuo fianco a voragine
per annunciare il mio discorso della montagna”.
*
Dopo migliaia d’anni mi trovi
e ti tormenti perché trascuro ornamenti dell’arrivo
dei tantissimi anni che non ti colpiva il malessere
di fiera in calore . . .
azzardo soltanto d’inviarti la semplice nebbia
sospesa al fianco della montagna––
conoscila scalandola passivamente e sbrègati la pancia . . .
che la montagna scenda al tuo vivaio.
*
Devastazioni
inquinazioni
alluvioni
depositano sedimenti nelle arterie
e valvole complicano l’adiacenza di ruggine
alle ruote che ruotano senza freni
a valle si blocca il viaggio
e non si guardi indietro il meglio.