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Alfredo De Palchi: Una vita scommessa in poesia

Da Narcyso

Alfredo De Palchi: Una vita scommessa in poesiaEcco il mio intervento pubblicato nel volume UNA VITA SCOMMESSA IN POESIA, omaggio ad Alfredo De Palchi, Gradivas Publications 2012 e presentato recentemente a Firenze nel corso di uno splendido incontro. Alfredo ha letto alcuni inediti riconfermandosi grande, crudele, veritiero poeta. 

Contro il Nulla1
La poesia di Alfredo De Palchi

‹‹e più oltre,/vedo me, uomo/la sua agonia di animale/di sentore mortale/di mente s-centrata››. Lo sguardo si è raddoppiato, l’Io guarda se stesso, come a volersi conoscere per mezzo della distanza necessaria che neutralizza mente e cuore. Leggiamo una cronaca estraniata, che invece di descrivere tutto, si concentra sul particolare del gesto violento, sulla stanza nuda, sui liquidi versati sul pavimento, sull’urlo della vittima ridotta a bestia: ‹‹a cenno del Capo/dai fianchi si tolgono cinghie grosse/cuoio del dio assassino/cuoio che cade, mani/accarezzano il cuoio grosso largo, odore/di animale seviziato di uomo odore/di assassino››.
La poesia di Alfredo De Palchi è una sconvolgente invettiva contro le violenze della Storia, i riti e i miti del potere. Rimanda ai corpi crocifissi, isolati nella stanza vuota, disossati, scomposti, dei quadri di Bacon: un giovane uomo, un luogo chiuso, senza testimoni. A volte il testimone sembra essere il suo stesso aguzzino. Il richiamo alla Storia e alla sua mancanza di senso è fortissimo. Ma cosa vuol dire questo s-centramento? Il neologismo ci rimanda a un uomo che si guarda; non come davanti a uno specchio, ma come a un doppio di se stesso. Come in un lucido sogno: ‹‹non capisci che una parte di me/è oltre la realtà››. Guardarsi non è conoscersi ma cogliere di sé altre possibilità: ‹‹scendere al nadir/non c’è ricupero/un ricominciar daccapo,/il risultato finale era/all’inizio››. Questo movimento al contrario – scendere al nadir – ci dice che inizio e fine finiscono per coincidere; che il movimento delle immagini – e della lingua di conseguenza – è simile al flusso delle correnti ascensionali che ci attraversano: dall’incompiutezza e dalla confusione delle origini, fino agli estremi sogni di trascendenza, di amarezza o di perfezione della fine. Il libro si apre con la descrizione della violenza e si chiude con la disperata esaltazione barocca del corpo della donna, campo di esercitazione degli esperimenti di trasformazione di questo io violato; ma anche del corpus della lingua poetica tutta. I numerosi riferimenti cristologici, l’ascendere e sprofondare, ci informano che il problema di dire il Male, di dargli forma, diventa problema della lingua nel momento in cui questa tenta di mettersi in contatto col grande mare di ciò che sta sotto; con ciò che comunica con la superficie attraverso un tubo, una sonda.
Se il corpo torturato si abbandona perché è portato, condotto dal suo aguzzino, il corpo posseduto della donna non comanda. Sono, ambedue, corpi che subiscono, come a voler indicare la continuazione del racconto, la ricerca di altre forme per dire la formula definitiva. Così le poesie a partire da Sessioni con l’analista, non ci raccontano un erotismo solare, nel significato antico di splendore del corpo. Il corpo della donna sembra essere amato e posseduto come per una resa dei conti. Il sesso, qui, è un sacrificio, una messa formale, ‹‹sul tuo corpo è illuminante/assassinarmi››. L’erotico non si alimenta della consunzione ma dell’accrescimento e della variante. L’erotico ha bisogno del barocco, della posizione. Del desiderio, infine, e del sogno. Questo sogno di un corpo altro, tuttavia, non spiega nulla; piuttosto rappresenta, concretizza ciò che la realtà disperde. Freud ha voluto dare del sogno una spiegazione razionale, ha piegato il simbolismo alla metafora; ma non è una metafora lo scarafaggio kafkiano; piuttosto una realtà a parte, per la quale non è possibile utilizzare altro linguaggio se non quello dell’ironia o dell’indifferenza. De Palchi si situa in questo altro. Appaiono bestie nella sua opera, animali quasi sempre minacciosi. Potenti immagini che non vanno spiegate ma semplicemente accolte nel loro essere apparizioni, messaggere dal Nulla, così che il male continui ad autorappresentarsi nelle forme mostruose dell’eccesso. Queste non abbandonano mai la parola, non le danno tregua. L’atto del mostrare il proprio sesso, descrivendolo in maniera compiaciuta, è forse da interpretare secondo questa volontà di non voler scomparire. Questo sesso non stupra e non crea. Piuttosto, proclamandosi, evoca la violenza dell’inizio. Questa polluzione continua è la forza barocca del sogno inteso come possibilità del dare nuovo senso a ciò che non ha potuto compiersi. Fare l’amore non è possedere. E’ piuttosto perforare, solcare le acque di un fiume che porta da qualche altra parte, attraversare il tempo:‹‹per la scala a chiocciola,/a cerchio trivello il pozzo sbattendo/intensamente l’ovale propaggine/della nebula che vertigina››.
Se è vero come dice Pierre Hadot che c’è un misterioso legame fra il linguaggio e la morte2, forse il vero lato oscuro della poesia di De Palchi è la scoperta/intuizione che questo Male è antecedente; che si è mostrato ancora prima e che già si annidava nel seno. Sono da interpretare in questo senso le scene dell’infanzia che descrivono l’uccisione di un coniglio sui margini dell’Adige; e del ‹‹cane a zampe legate/uno straccio nella bocca››. E’ la violenza che precede la Storia; che si mostra, per la prima volta agli occhi di un bambino e che già si prepara un nido nel cuore dell’uomo dove regnare.
Foemina Tellus, l’ultimo libro di De Palchi, conferma, rispetto alle opere precedenti, il tono aspro e corrucciato della denuncia personale, fino all’invettiva, come a chiudere definitivamente i conti con persone e personaggi, laddove questi si sono prestati a recitare – nel grande dramma delle antitesi – la slealtà della vita; come chiarisce l’autore, però, «senza rancore, senza cattiveria, ma con una continua sete di giustizia».
C’è una parola che ci conferma questo lavoro della lingua a denudarsi, a ferirsi: sgraffiare; ma ci dice anche di un potenziamento della carica estortiva della lingua (estorcere senso dal senso) nella finzione di un barocco velenoso che si è tramutato in primitivismo, dove la parola è costretta a farsi rozza, a storpiarsi volutamente; a sgraffiarsi, essa stessa, con i suoi suoni striduli, contro il muro della vita.
Spesso, letti a voce alta, questi testi ci comunicano il gesto verticale del dicitore, i movimenti di un viso corrusco, la funzione fortemente accentuata delle sillabe, come a volersi imporre per quantità di suono, di passaggi aspri, piuttosto che di assonanze rievocative. Eventuali curve di suono non riguardano neanche la donna, evento, piuttosto, del tremore del mondo, come dell’improvvisa apparizione, in Leonardo, di una madonna numinosa e del conseguente fuggire dei cavalli.
La donna, è piuttosto, associata, in linea con una visione cosmica ampiamente delineata in tutta l’opera di De Palchi, alla creazione di ovuli/pianeti; è materia che denuda l’elementare istinto erotico del maschio trascinandolo verso i cunicoli di un viaggio periglioso nel tempo e nello spazio col rischio di perdersi per sempre.
Questo maschio dalla partenza veloce e breve, è il luccio/poeta, agitato nel multiforme sgorgare delle acque; ma anche protetto e scampato, per puro caso, dal rovinare degli eventi. È il maschio che non si arrende, abituato a contrariare per resistenza, a riconoscere tutte le volte, le forme della morte, soprattutto quella più mefitica, che agisce tra le pieghe di noia del quotidiano, e cioè la memoria che si è tramutata in ricordo, svuotata della sua carica corrosiva. E qui, in effetti, l’invettiva ha la funzione di ricaricare mnemosine, liberandola del pathos della malinconia e restituendole la funzione civile di dissenso, nel modo, in alcuni passaggi, che ricordano la parola forte dell’inferno dantesco.
Ogni cosa esiste solo in quanto resiste alla propria sparizione. La femmina, allora, nella sua ambiguità, cela ancora una volta il desiderio o l’orrore di essere madre per attestarsi nella funzione di luogo misterico del nulla della vita. Essa non ha anima ma, brutalmente corpo che permette il trapasso da un mondo all’altro. Questo erotismo pagano, incisivo e blasfemo, finisce, tuttavia, per coincidere con un’idea materica del divino, attraverso un tremore capace di smuovere la lingua tutta e restituendole un’idea di giusta causa contro il male del mondo e dei suoi sacerdoti.
Sebastiano Aglieco

Note:
1Si fa riferimento ai due libri pubblicati da De Palchi: Paradigma – Tutte le poesie: 1947-2005, Hebenon 2006; Foemina Tellus, Joker 2010. Un altro resoconto sulla sua poesia è presente nel mio libro di saggi: Radici delle isole, i libri in forma di racconto, La vita felice 2010.
2 Pierre Hadot, Esercizi spirituali, Einaudi.


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