Magazine Cinema
di Claudio Giovannessi
con Nader Sarhan
Messo all'angolo da una crisi che ne ha ridotto le possibilità d'applicazione, il cinema d'autore in Italia prova a reagire mettendo in campo una piccola rivoluzione che coinvolge non solo gli aspetti produttivi, finalmente propensi ad esplorare nuove forme di distribuzione e visibilità (il web innanzitutto, con i primi casi di cinema fruibile quasi o esclusivamente online) ma anche, ed è ciò che ci interessa, quelli metodologici, con la tendenza a riformulare i territori della sua indagine. Sul piano pratico questa ricerca si è tradotta, nella stagione in corso, in uno spostamento dello sguardo che ha portato al centro della scena ciò che normalmente è relegato ai margini. Dall'inconscio collettivo ed individuale messo in campo da opere importanti come "Reality e "Bella Addormentata" o fortemente discusse, quali sono state quelle di Pappi Corsicato e Paolo Franchi appena presentate al festival di Roma, a forme di socialità dimenticate o rimosse come quelle derivate dai luoghi di detenzione, protagonisti assoluti tanto nel cinema di finzione (Cesare non deve morire, 2012) che in quello documentario. Una ricognizione che è riuscita a far parlare la nostra solitudine nella fatiscenza di una fabbrica dismessa ("L'intervallo", 2012) e nell'oscurità sotterranea di una cantina adibita a ripostiglio ("Io e te", 2012). Spazi intesi in senso fisico e figurato su cui il cinema italiano si imbatte e che, in piena controtendenza rispetto all'inerzia del temperamento nazionale, ricerca, superando limiti geografici e stereotipi di lunga data.
Ed è sulla scia di un new deal cinematografico che sostituisce la riconoscibilità della periferia romana con la topografia più selvaggia e meno sfruttata di Ostia, che Claudio Giovannesi racconta la storia di Nader, adolescente italiano di genitori egiziani, e della sua emancipazione dalle tradizioni più conservative della cultura islamica. Una ribellione vissuta sul filo del rasoio e di una legalità interrotta da una rissa in discoteca, in cui Nader accoltella un coetaneo romeno. Nel tentativo di evitare la vendetta dei parenti della vittima, il ragazzo sarà aiutato da Stefano, compagno di scorribande ed amico fraterno.
Deciso a definire sin dal titolo una vicenda che parla di integrazione - ed il particolare delle lenti a contatto azzurre utilizzate da Nader per corrispondere alla fisiognomica occidentale sono il segno tangibile di questa volontà - Giovannesi costruisce la trama del film contrapponendo le spinte centrifughe del suo protagonista, costantemente rivolto a quel mondo che vuole conquistare, all'istinto di conservazione di una cultura apparentemente rifiutata ma sostenuta quando arriva il momento delle scelte decisive. Così se "Alì ha gli occhi azzurri" si sofferma maggiormente sulla determinazione con cui Nader disobbediendo al dictat dei genitori porta avanti il fidanzamento con una ragazza italiana, è costante nel corso degli avvenimenti il riferimento agli insegnamenti religiosi, messi in mezzo quando si tratta di impedire alla sorella di frequentare Stefano con le regole da lui stesso rifiutate scappando da casa, e dormendo dove capita. Un dualismo che Giovannesi riesce a rendere per immagini, lavorando sul corpo degli attori, con sequenze esemplari come quella di Nader, Stefano e di suo padre contemporaneamente impegnati a radersi la barba rubandosi lo spazio uno con l'atro. All'interno di un ambiente ridottissimo, con le figure riprese di fianco e schiacciate uno sull'altro dall'ottica della telecamera, la natura di Nader, desideroso di amalgamarsi al tessuto sociale ed allo stesso tempo di liberarsene, non potrebbe essere espressa in maniera migliore E poi concentrandosi su ciò che sta fuori, a cominciare dal paesaggio urbano e naturale che alla pari di un diaframma si apre e si chiude sui personaggi incastrandoli in un meccanismo precario, che traduce nella sua alternanza gli sbalzi di umore di un cinema che mischia il determinismo sociale dei fratelli Dardenne all'epica da romanzo di formazione di certo cinema americano (viene in mente "Guida per riconoscere i tuoi Santi", 2006). Giovannesi non sacrifica i contenuti alla fruibilità, ed alla pari di "Razzabastarda"di cui condivide il medesimo team produttivo avalla l'idea di una realtà in cui italiani e stranieri sono destinati ad incontrarsi ed a convivere, come piega la sequenza in cui a partire dai volti di Nader e Stefano lo schermo si allarga sull'istituto scolastico pieno di volti provenienti da altre latitudini. Se "Ali ha gli occhi azzurri" non fa nessuna scoperta sconvolgente, perché in fondo la necessità dei genitori di Sader di preservare la propria identità chiudendosi a qualsiasi ingerenza esterna rientra nella normalità, ed il comportamenti anche violenti del protagonista sono assimilabili a quelli di chiunque sia obbligato a cavarsela da solo, il pregio del film è di far sentire vero ciò che mostra, e di riuscire a raccontare la complessità senza appesantire la visione. Selezionato nel concorso internazionale del festival di Roma il film ha vinto il premio speciale della giuria.
(pubblicata su ondacinema.it)
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