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All’armi, siam leghisti.

Creato il 16 agosto 2010 da Massimoconsorti @massimoconsorti

All’armi, siam leghisti.

Assalto a San Marco

C’è da mettersi a tremare: “Se ci sarà il governo tecnico – definito dal Bossi “Cefalo” un cocomero – milioni di leghisti scenderanno in piazza”. Come sempre il Cefalo padre di cotanta Trota, usa il periodo estivo, specie i giorni intorno a ferragosto, per porsi al centro del dibattito politico italiano. Lo fa da anni. Quando gli altri sono in vacanza, costretti per una volta ad adempiere ai loro doveri coniugali mettendo da parte veline, velinone, trans ed eunuchi, Bossi, dalla calma piatta di Ponte di Legno, ci rifila le sue patacche in salsa verde che manco Vissani. La fregatura è che quest’anno i 50 mq di Giancarlo Tulliani a Montecarlo gli hanno rubato la scena per cui ha dovuto far ricorso alla truculenza per essere ascoltato e occupare qualche riga dei giornali (La Padania a parte, ovviamente). Le piogge del Nord hanno però portato il Cefalo padre di cotanta Trota, a fare una scoperta illuminante per l’intera nazione italica. Dopo anni di elaborazioni condotte dal Centro Studi Leghista (Cesl) intitolato ad Alberto da Giussano e presieduto dall’intellettuale lanciafiamme Roberto Calderoli, Bossi ha scoperto che “nel Nord ci sono infiltrazioni mafiose, soprattutto in Brianza”, una notizia che ha sconvolto i milioni di italiani che leggono il Giornale, Libero e guardano il Tg1, gli altri ne erano ampiamente a conoscenza. Che la Lega abbia tra le sue fila il ministro degli Interni poco importa, la rivelazione è stata il frutto di studi pazzi e appassionati condotti da uomini intellettualmente liberi e, soprattutto, all’altezza. Una volta la Lega c’ha provato a fare uno pseudo colpo di Stato. Era il 17 maggio 1997 quando, al termine di un infuocato comizio del Cefalo, un centinaio di leghisti tentarono l’assalto alla torre di San Marco a Venezia cercando di occuparla per dare inizio alla rivolta. Quando i leghisti si resero conto che i poliziotti non li avrebbero mai fatti salire con la forza, occuparono lo stesso la torre ma pagando il biglietto come turisti giapponesi qualsiasi, gli stessi che scattarono migliaia di foto alle camice verdi ridendo come matti. Per l’occasione, i padani camuffarono un trattore da carrarmato con tanto di cannoncino montato su una torretta di legno che, fortunatamente per gli occupanti, non riuscì a sparare altrimenti sarebbe stata una strage di leghisti-golpisti. Le cronache dell’epoca raccontano che, finito appunto il comizio di Bossi, al grido di “Tutti sul campanile”, due-trecento leghisti armati di tamburi, striscioni e modellini di San Marco acquistati per l’occasione, tentarono l’assalto alla torre prontamente respinti dalle forze dell’ordine. L’allora sindaco leghista del bresciano Daniele Roscia, disse la famosa frase: “Ecco come vi tratta la Repubblica italiana. Dovremo camuffarci da albanesi, così ci farebbero entrare con il tappeto rosso”. Insomma i leghisti sanno come si fa un colpo di Stato per cui, se Bossi ne minaccia uno è bene stare molto attenti. Ma il pericolo vero, ormai lo hanno capito anche le pietre (che sono quegli oggetti che non ascoltano le news dell’Augusto Direttorissimo), sono i colpi di coda del regime berlusconiano. Flores d’Arcais proprio ieri, sulle colonne del Fatto Quotidiano, in un totalmente condivisibile fondo, ne ha disegnato i contorni. Al termine della lettura di quelle che non sono solo teorizzazioni di un politologo in crisi di nervi, c’è venuta un’angoscia tale che abbiamo corso il rischio di rovinarci il casalingo ferragosto fatto di tivvù e rutto libero alla Fantozzi. Ci ha sollevato il morale il pensiero del golpe del 1997 anche se Berlusconi non è Bossi e il suo tasso di pericolosità è ben più elevato. Ha ragione, comunque, D’Arcais il quale, alla fine del suo articolo ha scritto di Berlusconi: “Chi non si impegna fino allo stremo per fermarlo è suo complice nell’assassinio della democrazia nata dalla Resistenza”. Complici del Nano mai, piuttosto una cena con Bersani.

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