Francesco Petrarca:
Nacque ad Arezzo nel 1304 mentre la sua famiglia era in esilio, ma ben presto si trasferì a Carpentras, un piccolo paese vicino ad Avignone dove il padre lavorò presso corte papale. Fu iniziato agli studi giuridici, che usò solo come pretesto per poter lasciare la Francia e raggiungere la sua Italia, quelle delle favole che i genitori gli raccontavano da bambino. Morto il padre, tornò ad Avignone e prese gli ordini minori per poter usufruire dei benefici ad essi legati, gli fu imposto il celibato ma non seguirà mai questa regola. Iniziò così la sua vita errante, sempre in giro tra le corti italiane e Avignone, fu il primo poeta onorato e richiesto per la sua opera letteraria, con lui, si può dire, nacque il letterato italiano stipendiato, un personaggio ufficiale che ha acquisito un’autonomia professionale. Petrarca fu un uomo inquieto, vittima di lunghi periodi di depressione che lo spinsero a cercare la solitudine e l’isolamento, durante questi periodi scrisse e si dedicò a grandi progetti la maggior parte dei quali abbandonò prima di concluderli o considerò falliti. L’opera che lo rese grande, tanto da essere preso come modello per la lingua italiana, è quella che lui stesso considerò una sciocchezza, ma a cui si dedicò per tutta la vita: il Canzoniere o Rerum vulgarium fragmenta.
Il Canzoniere:
è una raccolta di 366 poesie cioè, tolta quella introduttiva, tante quanto sono i giorni dell’anno, come una sorta di breviario laico. Si divide in due parti convenzionalmente chiamate “in vita” e “in morte di madonna Laura”, anche se in realtà il poeta aveva lasciato solo delle pagine bianche tra le due parti, quindi possiamo trovare delle rime in cui Laura è ancora viva nella seconda parte e viceversa. Quello che Petrarca vuole fare qui non è un percorso salvifico, come fece Dante nella “Vita Nova”, al contrario vuole dare voce al suo dolore e alle sue paure, in tutta l’opera si avverte la morte che insegue noi mortali e ci ricorda che non c’è più tempo. É la stessa ombra che incombe sul poeta che nel “Secretum” si accuserà di accidia rimproverandosi aspramente per non aver portato a termine molti lavori. Il Canzoniere risulta quindi un’opera d’amore dove l’amore stesso è usato come mezzo per raccontare se stessi, Laura e ciò che lei provoca nel poeta, non sono altro che pretesti per analizzare e mettere a nudo il proprio animo, e lo si può vedere bene dal fatto che le rime non sono lodi per la donna e per le sue magnifiche qualità, ma composizioni dove la donna è messa in secondo piano per far spazio alle sensazioni del poeta.
All’Italia (CXXVIII)
è una delle tre grandi canzoni politiche, vera poesia d’amore per la sua patria che è costretto a vedere divisa in tanti stati in guerra fra loro, ma ciò che fa più male è che tutto quel dolore tutte le ferite che vede nella sua bella Italia le sono state inflitte proprio da coloro che dovrebbero difenderla: i signori d’Italia, coloro “cui Fortuna à posto in mano il freno de le belle contrade”. Il poeta vuol far aprire gli occhi a queste persone e per riuscire in queste impresa non invoca l’aiuto delle muse, ma di Dio stesso a cui chiede di aprire quei cuori che la guerra ha indurito, e di far in modo che attraverso questa voce si senta la Sua verità. Il periodo in cui vive Petrarca è il periodo dei Comuni e delle Signorie, ognuno di questi Paesi aveva al suo servizio un esercito guidato da mercenari stranieri che in battaglia miravano a uccidere gli italiani, non certo i loro connazionali coi quali si mettevano d’accordo per far finire le battaglia una volta a favore dell’uno e poi a favore dell’altro, in modo da non dare mai un termine alle guerre con cui si arricchivano. Ma come possono i signori non accorgersi del “Bavarico inganno”? Perché cercano fedeltà e amore in un cuore pronto a vendersi per denaro? Non capiscono che colui che possiede più mercenari è quello che ha più nemici? Evidentemente no, visto che nonostante la Natura abbia provveduto, con le Alpi e con i mari, a tenere al sicuro dai barbari questa terra benedetta, loro sono riuscito lo stesso a farla contaminare tanto che adesso gli italiani muoiono sotto le spade di quei popoli senza legge che in passato avevano conquistato, e solo per la loro ceca sete di potere e denaro perchè se “ il furor di lassù, gente ritrosa, vincerne d’intelletto, peccato è nostro, e non natural cosa”. Eppure c’è ancora speranza per questa Italia, c’è ancora luce in fondo a questo tunnel fatto di inganni, sotterfugi e bugie, perchè in fondo questa è la nostra terra è il luogo dove siamo nati, per Petrarca è il posto che faceva da sfondo a quelle fiabe che gli venivano raccontate prima di andare a letto, proprio lui che è cresciuto in un paese unito come la Francia, al di fuori delle dispute politiche ( al contrario di Dante, per cui un’ Italia ancora non esiste, esiste solo Firenze), lui non può accettare di vedere questo paese, suo unico e vero grande amore, afflitto e bistrattato. Chiede pietà a quei signori, per la sua terra e per il suo popolo, perchè il tempo passa e la morte è sempre più vicina a noi e quando si troveranno davanti a Dio, conviene che non abbiano pesi o macchie che gravino sulla loro anima. E allora bisogna fare qualcosa e trasformare la speranza in realtà e combattere finchè “ vertù contra a furor prenderà l’arme, e fia il combatter corto: ché l’antiquo valore ne l’italici cor’ non è anchor morto”.
La canzone e questi versi in particola ha suggestionato molto la letteratura successiva, in particolare possiamo ricordare Machiavelli che ha concluso la sua opera politica, il Principe, con le parola appena citate, e poi Manzoni che riprende molti dei temi trattati nel coro del Conte di Carmagnola, e infine Leopardi che inizia i suoi Canti con una canzone intitolata “All’Italia”, che sembra quasi la triste continuazione di questa petrarchesca che ci accingiamo a leggere.
Metro: Canzone di endecasillabi e settenari, la strofa ha fronte AbC,BaC e fronte cDEeDdfGfG
Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che ‘ miei sospir’ sian quali
spera ‘l Tevero et l’Arno,
e ‘l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ‘ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ‘ntenerisci et snoda;
ivi fa che ‘l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.
Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ‘l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ‘n cor venale amor cercate o fede.
Qual piú gente possede,
colui è piú da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?
Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma ‘l desir cieco, e ‘ncontr’al suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mansüete gregge
s’annidan sí che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí ‘l fianco,
che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.
Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ‘l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ‘l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la piú bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e ‘n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga ‘l sangue et venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui, né per disprezzo.
Né v’accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ‘l danno;
ma ‘l vostro sangue piove
piú largamente, ch’altr’ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché ‘l furor de lassú, gente ritrosa,
vincerne d’intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.
Non è questo ‘l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l’arme, et fia ‘l combatter corto:
ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto.
Signor’, mirate come ‘l tempo vola,
et sí come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l’alma ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
et quel che ‘n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto piú degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:
cosí qua giú si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.
Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra’ magnanimi pochi a chi ‘l ben piace.
Di’ lor: – Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace. -