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All of our Jobs

Da Albertocapece

All of our JobsStamattina Anna Lombroso, mi ha mandato questo post che pubblico volentieri, in primo luogo perché mi esime dalla ritualità del cordoglio che come altre cose “dovute” mi riesce malissimo proprio per il diaframma che si crea tra una miriade di pensieri e la pista obbligata che si deve seguire. Ma in secondo luogo perché dimostra come è facile subire l’appeal delle leggende, attentamente costruite, senza andare a vedere nel “retrobottega” della storia.

Io ho un istintivo fastidio per certi riti collettivi. Soprattutto se si tratta di “esequie” che seppelliscono con onore chi avrebbe dovuto essere amato e rispettato da vivo. O ammirato. O peggio la morte confonde contorni suggerisce compassionevoli dimenticanze, come faceva mia zia che ogni volta che uno moriva diventava “il povero…” escludendo dal suffragio – mi si dice – solo Hitler e Mussolini (ma non la Petacci).

Così mi sono chiesta perché invece ho condiviso con grande dolcezza la tristezza e il compianto della rete per la morte di Steve Job, come una perdita vissuta con unanime commozione da chi anche inconsapevolmente vede quella mela allegra come il simbolo della genialità inarrestabile dinamica che vince con la bellezza della creazione in un mondo nel quale molti sanno fare poco.
Sarà questo, si sa ci sono self-made men più amabili e meritevoli di gloria di altri.
Sarà la morte che agguanta nel pieno fulgore della vita: le dipartite precoci incoronano di viole volti che assumono una diversa gentilezza trepida e eroica, forse quella dei perdenti, di quelli che sono stati battuti con onore nella battaglia finale.
Ma io credo che sia anche perché abbiamo nostalgia dell’integrità. La rimpiangiamo come qualcosa che abbiamo trascurato, che abbiamo ammirato troppo poco. E siamo illuminati dall’onestà di chi lascia qualcosa di molto amato, cha ha ideato e costruito perché non venga vulnerato dalla sua vulnerabilità. Dall’innocenza di chi con potenza dichiara la sua debolezza. 
Sarebbe inappropriato e avvilente fare confronti con uomini di impresa italiani contemporanei – anche Olivetti aveva occhi così limpidi. E anche con chi pensa che le dimissioni siano una rinuncia cui non si deve sottostare. 
No, abbiamo pianto prima e dopo la sua morte, la perdita di un uomo d’onore, una qualità che stiamo dimenticando e che lui ha avuto il merito di ricordarci.

In realtà se avesse vinto la filosofia di Steve Jobs o degli altri fondatori della Apple, con tutta probabilità non starei scrivendo queste righe e molti altri non le leggerebbero perché i personal computer sarebbero ancora un oggetto per pochi e di uso professionale. Infatti se è vero che acquistando, con un colpo di fortuna e anche di genio commerciale, l’interfaccia grafica della Xerox, i computer Macintosh posero le basi per un uso semplificato della macchina senza bisogno di dover digitare comandi  da tastiera, è anche vero che il “sistema Apple” era quello che impediva l’accesso alle proprie tecnologie da parte di terzi, quello che terrorizzava i produttori indipendenti con le lettere degli avvocati, che più di ogni altro venerava il brevetto e l’approccio proprietario.

Qualcosa di molto diverso dal mond0 Ibm e Microsoft che invece aveva creato una vastissima rete di produttori che si affannavano a creare schede madri, moduli di memoria, software e mille altre cose “compatibili” che resero i personal abbordabili da parte di persone semplicemente appassionate e finirono per creare il mercato dei computer personali.

Qui non è questione di fare qualche stupida guerra di religione tra sistemi che sono sono la passione degli smanettoni e di quelli che non sanno cosa sia la programmazione, ma di due modi radicalmente diversi di intendere l’informatica e la tecnologia in genere: quella chiusa e quella aperta. Steve Jobs è stato un genio della commercializzazione, magari spesso della “figata”, del gadget, ma ha pochissimo a che vedere con il fenomeno dei garage nei quali si è sviluppata l’avventura informatica. E difatti il nuovo splendore della Apple con Ipod e Ipad riprende completamente la filosofia proprietaria in questo caso su un terreno apparentemente più fertile.

La questione vera è invece l’incapacità di una società investita dal liberismo di vedere le cose nel loro significato reale senza fermarsi all’apparenza e di non abbandonarsi al facile fraintendimento. Uno dei segnali più evidenti di un maturo dilettantismo nelle analisi della sinistra è stato il fatto nella sua stampa si è sempre tenuto per il “Mac”  contro il supposto “monopolio”  Windows, ma contemporaneamente per l’Open source che è l’esatto opposto della filosofia chiusa di Apple. Probabilmente era il tifo per il “debole” nei confronti del “forte”, senza capire che la marginalità del Mac era conseguenza di alcuni errori compiuti dall’azienda, ma principalmente il suo rivolgersi a un pubblico abbiente che voleva “distinguersi” soprattutto grazie a prezzi più alti, anzi di fatto inarrivabili per i più, se ci mettiamo il software applicativo. Una scelta il cui significato non cambia se in seguito è divenuta una necessità.

Non è un caso che le innovazioni di Apple si limitino alle idee commerciali, brillanti e geniali finché si vuole, ma nulla a che vedere con le vere novità di linguaggio e di tecnologia dell’informatica che hanno permesso, tra l’altro, lo sviluppo della rete. Ma si sa che il mondo va così. Soprattutto questo mondo, nel quale se per caso morissero  Linus Torvalds o Steve Caps, tutti si chiederebbero chi caspita sono, perché non sono guru del business.


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