All’ombra dell’ultimo sole

Da Melusina @melusina_light

Devo essermi assopito un attimo. Questo caldo, questa luce del mezzogiorno.
Ma anche mentre dormicchiavo sentivo tutto. Sentivo il ronzio delle api sulle aiole e sentivo le voci dei bambini che giocavano un po’ più in là; sentivo qualcuno sparecchiare il tavolo del pranzo sotto la pergola e sistemare le sedie all’ombra per servire il caffè. Io intanto riposavo, tenevo gli occhi chiusi, semplicemente, e lasciavo andare i pensieri a casaccio, come si fa di domenica dopo mangiato.
Sto bene qui, all’ombra; forse il gelsomino profuma un po’ troppo, o forse non è nemmeno un gelsomino. Forse è il profumo di una donna. Forse è profumo di un dolce di compleanno, dei confetti di un battesimo, dell’incenso di un funerale.
- Come va? I bambini danno fastidio? Adesso li faccio smettere.
Ma no, che giochino pure. La tenda bianca della porta finestra si muove appena, come se dietro ci fosse qualcuno che guarda fuori senza farsi vedere. Questo caldo, questa giornata che non finisce mai. Ho fatto del mio meglio. Il pranzo era buono, leggero, vario, c’era di tutto, ottimo vino – dicono – e una torta con le scritte in oro. Ho fatto del mio meglio, ma non avevo molto appetito. Solo l’idea mi spossava. Ho assaggiato, nulla di più. Ho mangiucchiato guardandomi intorno per intercettare gli sguardi preoccupati, delusi. Ho cercato di tenere da parte un po’ di fiato per la candelina, una sola grossa e dorata, ma sospetto che qualcuno, alle mie spalle, abbia soffiato forte al mio posto. Così li ho fatti tutti contenti, e al partire dell’applauso mi è partito anche un po’ di mal di testa, il solito del resto. È stato allora che mi sono assentato per un po’. Avrei voluto chiedere scusa ma ho rimandato a dopo. Prima avevo solo un assoluto bisogno di riposare un pochino. Ogni cosa, ormai, richiede un lungo percorso di preparazione prima e di riposo dopo. Quello che ho notato, purtroppo, è che fra quel prima e quel dopo i ricordi del passato e anche la percezione del presente svaniscono. Non sono più capace di trattenerli e di assimilarli. Non sono più capace di trattenere e di assimilare nulla.
Ho figli, nipoti e pronipoti. Non di tutti mi ricordo i nomi, sono tanti. Vanno e vengono in casa mia, la conoscono meglio di me; io non me la ricordo quasi più, me la ricordo diversa. Quando c’era la Nini, per esempio. Deve essere lei, quella che smuove leggermente la tenda. Forse aspetta che se ne vadano tutti per raggiungermi in giardino, bagnare i fiori, farmi una carezza. La serata, quella almeno, sarà tutta per noi.
- Papà, noi ce ne andiamo. Adesso l’infermiera ti porta dentro, che c’è più fresco.
Per la verità, io proprio adesso cominciavo a sentire un po’ di freddo. Dite alla Nini di portarmi una coperta. Che si sieda qui accanto a me, che mi scaldi le mani; mentre voi ve ne tornate alle vostre case noi due potremo parlare delle nostre piccole faccende, di come è andata la mia festa di compleanno (“Cento anni, complimenti! La facciamo, una bella fotografia di gruppo?”, mentre io pensavo “Cento anni, di già? Ora si spiega tutto”). E non mi escono le parole, lo temevo; solo si muove vagamente una mano, ma non si sa spiegare, è come un uccello malato che vaga. Cieco.
Ma è solo stanchezza. Cento anni di stanchezza. E poi la stagione, i primi caldi, i pomeriggi lunghi, le notti con i grilli, la nebbiolina dell’alba, il corpo di piombo che fatica a girarsi nel letto. Andate pure, voi, e grazie di tutto. Solo, dite alla Nini se può venire per favore, perché adesso sento molto la sua mancanza.
- Allora ciao papà, e ancora auguri.
Aspettate, mi pareva di avere una cosa da chiedervi. Ma la Nini, poi, l’ho sposata, vero? E dov’è il mio fazzoletto? Abbiate pazienza, è stata una giornata faticosa, mi sento frastornato e allora, sapete, mi vengono dei dubbi. Mi faccio delle domande. Mi guardo intorno per vedere se ho tutto, se ho perso qualcosa, e lo sforzo è inutile. Sono sempre più confuso. Non vale la pena. Andate, andate pure, ci sarà tempo un altro giorno. Fate i bravi, voi, intanto. Io resto qui, non ho bisogno di niente. Davvero.
- Papà? Papà? Mi senti? Oh Dio, papà!
Vi sento, vi sento; siete voi che non potete sentirmi. State tranquilli. Non agitatevi. Sto bene, sto meglio, è tutto molto calmo, sempre più calmo, sempre più leggero, sempre più semplice. Non faccio quasi più fatica. Galleggio, plano, ho imparato a volare. Credetemi, è meraviglioso. 

Nini, sei tu quella luce bianca là in fondo? I ragazzi, sai, li ho sistemati tutti. Ora sono pronto. Se mi vuoi ancora, quando arrivo ti chiederò di sposarmi un’altra volta.

nell’immagine, Gli sposi, di Marc Chagall (1915)

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