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La saggezza popolare sassone (o Walt Disney, fate voi) ricorda che perché una storia funzioni c’è bisogno di un cattivo che funzioni – un cattivo a tutto tondo, convinto, astuto, efficace, lungimirante.
Milano, suo malgrado, non ha mai potuto permettersene uno di livello: i nostri villain sono in larga parte goffi, ingordi e disorganizzati e se dovessero sostituire jafar o la strega di Biancaneve farebbero finire i rispettivi film in un quarto d’ora, con un secco e rapido trionfo dei nani e dell’odioso Aladin.
Massima espressione della loro dilettantesca malignità è la Darsena di Milano, uno specchio d’acqua ampio e dalle mille possibilità commerciali che si pone tra i Navigli, coi quali condivide il liquame e i ratti, e Corso di Porta Ticinese, lombrico di pavé colonizzato da boutique per diciottenni dalla paghetta consistente.
In breve, una sorta di lago artificiale nel fulcro della night life milanese.
Ora, nessuno a Milano si è mai aspettato progetti concreti o vittorie politiche dai sognatori o dagli spiriti liberi (sempre che ce ne siano), quindi usi più o meno hippy di quel pezzo d’acqua non sono mai neanche stati nel novero dei nostri più coraggiosi sogni. Altrove, in una parte di mondo che forse esiste e forse no, avrebbero popolato la Darsena di fenicotteri o noleggiato grossi ciambelloni in cui sprofondarsi bevendo chinotto. Ma appunto, nessuno arrivava a desiderare tanto – chiunque si sarebbe tristemente accontentato di vederla ricoperta da zatteroni con musica zarra e prezzi da denuncia. Pareva una fine nello spirito dei tempi - l’ennesima fabbrica di soldi, messa giù magari con un po’ di stile data la posizione privilegiata.
Macché. Nonostante avessero la strada spianata, vuoi dalla volontà popolare (che a Milano coincide con un esercito di vecchi, asserragliati dietro tapparelle chiuse, che schiumano rabbia contro quasi tutto) vuoi dalla mancanza di opposizioni organizzate, i nostri Jafar – da che sono vivo – non sono riusciti a cavarne fuori alcunché.
Una sorta di piccolo Vietnam delle amministrazione destrorse meneghine. E il paragone non è a caso: la Darsena infatti si presenta da oltre dieci anni come una palude di sterpaglie e rifiuti, nel quale chiunque abbia un minimo di fantasia non può che immaginarsi animali orribili e vendicativi sguazzarvici dentro (più probabilmente non si vedono o perché già morti o perché gli animali orribili non sono mica scemi e preferiscono girare altrove).
Per anni senza un pur misero progetto, il nostro personalissimo Loch Ness aveva comunque una sua discutibile vita: da un lato, dove la riva è bassa, ospitava un parcheggio infido e selvaggio e, il sabato, la gloriosa Fiera di Senigallia, dove i 15enni di un tempo prendevano le misure con quello che credevano il mondo della vera delinquenza – tra bici rubate, bong di ogni forma e colore, retate occasionali, la tua compagna che rubava gli orecchini e tu che ti chiedevi se il Che avesse personalmente autorizzato tutti i magliettari a venderlo di fianco a Marilyn Manson e le Spice Girls.
Sull’altra riva, ai piedi del terrapieno sul quale sferragliano tuttora i tram e le biciclette che qualcuno ruberà, sopravviveva nessuno sapeva come l’Approdo Caronte – anche noto come la Rattaia, per motivi a questo punto ovvi.
Aperta parentesi. L’approdo Caronte era una sorta di virus nel sistema, un varco verso un mondo più libero, approssimativo e forse felice. Nato dalla buona volontà di ragazzi che, pulendo per l'appunto la Darsena, l'avevano trovato sotto una montagna di schifo e rimesso in piedi, resisteva senza allaccio elettrico e tantomeno idrico a non più di trenta metri da locali dove una birra costava già sei euro. Invisibile, si nascondeva sotto un muro di oltre tre metri, quel muro dal quale teoricamente qualcuno avrebbe dovuto affacciarsi per ammirare la Darsena e pomiciare con una frase di comodo. Dato che appunto non c’era nulla da ammirare, nessuno si affacciava e pochi ne conoscevano l’esistenza. E dato che per raggiungerlo non c’era altro modo che scavalcare il muretto e calarsi giù da una scala fuori da ogni norma di legge e buon senso, comunque pochi avrebbero avuto il coraggio di conoscerlo veramente. Affrontati quei pioli, venivi accolto da una casetta scassata ma accogliente, da un bar che sembrava uscito da Mad Max 2 e da un tot di cani punk dall’umore variabile. Oltre la struttura, si fa per dire, un generatore teneva in piedi borbottando le speranze riposte nella serata – che, come l’ambiente suggeriva, era appaltata sempre e comunque all’hardcore, di quello dove ci si distrugge sul palco e sotto al palco, e poi ci si scopre le persone più buone del mondo che a fine serata manca solo il saluto del lupetto.
Suonammo lì (vedi foto) e come da manuale fu un concerto hardcore nella forma prima che nella sostanza – con la band prima che rompe la pelle della cassa e la convinzione che il pezzo viene comunque meglio se si urla di più. Finito di suonare, uscivi e avevi davanti il mare – o almeno il mare che ti meritavi. Sopra la tua testa, il mondo che si mette il profumo e che sogna di cambiare macchina. Eri un mutante di Futurama, ma contento. Chiusa parentesi.
Ma arrivarono i cattivi, appunto. E promisero che tutto sarebbe cambiato, che quella palude avrebbe ripreso vita.
O meglio, sarebbe diventato semplicemente un parcheggio più grosso, uno di quelli capace di tramutare l’acqua in asfalto. Uccisero quel poco di vita che era rimasto, uccisero i ratti come noi e come quelli veri, portarono un enorme cartellone pubblicitario - di quelli che oggi usano per pagare i lavori – e lo piantarono in mezzo come un alpinista pianta la bandiera sulla cima. Attorno, un cantiere ogni giorno più immobile – e si capì che avevano sì svuotato la piscina, ma che forse non sarebbe successo più niente. Così andò.
Finché un giorno non si sa se la giustizia o un divino senso del pudore fecero sì che il comune dovesse rispondere di quella vergogna, in cui era ovviamente coinvolto. E quello disse che qualcun altro aveva sbagliato e che tutto sarebbe cambiato - di nuovo. E ancora oggi si convive con una specie di voragine al centro di uno dei pochi quartieri potenzialmente affascinanti della città. L’impressione è che, chi ne è responsabile, passandovi davanti, provi effettivamente vergogna – ma che questa sia offuscata dalla gioia che hanno nel sapere che i ratti non hanno più nemmeno una rattaia dove andare.
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