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ALLA DERIVA - Phone Center o dell'integrazione pericolante
Creato il 24 dicembre 2010 da FededragognaTra le tante piccole e grandi paure che frenano questo paese, ha spiccato per deficienza in questi anni il decreto Pisanu - che costringe chiunque decida di offrire una connessione wi-fi a
1) chiedere il permesso al questore
2) chiedere i documenti a chiunque vi si colleghi
3) documentare su un apposito registro tutti i movimenti e i siti visitati da ciascuno dei fruitori
4) conservare detto registro fino a più infinito per eventuali controlli.
Un caso tutto italiano motivato dalla ormai leggendaria lotta al terrorismo - una singolare attività occidentale nata 9 anni fa che ha come principali attività il cercare gente con la barba lunga e il turbante nelle grotte del deserto afghano e il cercare gente con la barba lunga nel resto del mondo, specie quella tanto furba da aprire siti in cui organizzare attentati come fossero partite di calcetto.
Stupisce che negli anni 70 si riuscissero a fare dieci volte gli attentati che si fanno oggi con l'ausilio dei telefoni fissi, dei fax e nulla più.
Potere del passaparola?
Ciò detto, pare che il decreto Pisanu non verrà prorogato oltre il 31 dicembre e, anche se non è chiaro cosa ci si debba aspettare dal giorno successivo, è lecito immaginarsi che esercizi di ogni genere comincino a sparare il segnale wifi tutt'attorno senza perquisizioni di sorta.
E' ancora da capire se questo nuovo scenario decreterà la fine del pittoresco mondo degli internet point milanesi - che internet point non si sono mai chiamati.
Finora infatti, fatta eccezione per pochi sparuti e tragici casi di internet cafe (con burocrazie degne delle 12 fatiche di Asterix, prezzi indegni e una puzza sotto il naso epocale, manco ti facessero viaggiare nell'iperspazio), l'unico modo per controllare la posta in giro per Milano era (o meglio è - ancora per le prossime settimane) entrare in un phone center.
Nascosti da vetrine che recitano quanto costi al minuto una chiamata in Bangladesh o in Siberia (curiosamente, sempre molto meno di quanto io spenda per chiamare gente che abita quattro isolati più in là), i phone center sono stanzette generalmente fatiscenti che sfidano i metri quadri per cercare di piazzare quante più cabine telefoniche possibili. A lato, scrivanie che neanche il primo prezzo ikea con su altrettanti computer dove connettersi via skype col Perù o con la Nigeria.
Nello spazio che avanza, la cassa, dove mostrar documenti e inviare soldi in Turkmenistan o in Siam (pagando commissioni da strozzini a compagnie che per effettuare il trasferimento spendono qualcosa di asintoticamente vicino allo zero).
Entrandovi, è difficile intercettare una sola parola italiana: inevitabilmente, la frequentazione dei phone center è quasi interamente straniera, spesso divisa per continenti (difficilmente nei phone center africani dietro porta venezia vedrete colombiani - e viceversa in quelli a predominanza latina).
Milano è infatti capitale europea di dis-integrazione: nonostante la percentuale importante di ospiti d'ogni dove, è praticamente impossibile incontrarsi con altre etnie in spazi comuni che non siano i mezzi pubblici (che brillano per reciproca ostilità di tutti contro tutti).
Esistono locali per cinesi, locali per sudamericani e locali per italiani - ma non c'è pericolo che ci si trovi tutti assieme a mangiar qualcosa, a guardare un concerto o sadio cosaltro.
Per anni, in mancanza di un portatile o semplicemente spinto dalla poca voglia di restare in casa, i phone center mi hanno offerto riparo e connessione.
Dentro ci ho trovato umanità d'ogni sorta, fotografata nel cruciale e spesso bellissimo momento di contatto con famiglie distanti migliaia di chilometri.
Ognuno a modo suo: sudamericani che urlano nelle cornette come ossessi, probabilmente per dire cose tipo "ciao" o "che tempo fa lì" (da fuori e senza sapere la lingua, una telefonata di mia nonna gallipolina dev'essere identica), bambini collegati via skype con lo zio che suda via webcam da Calcutta, l'ucraina di fianco che ti chiede come entrare su facebook, e ancora cinesi che guardano video di popstar cinesi su youtube o egiziani venuti lì per scrivere su Word e poi stampare il menu della pizzeria (un giorno ne aiutai uno per il menu di capodanno, e mi mimava i piatti perché non sapeva che nome avessero).
Insomma, un raro - a Milano rarissimo - momento di incrocio e contatto tra popoli.
Certo fare il primo passo può non essere facilissimo: bastano pochi passi e ancora meno sguardi in alcuni phone center per rendersi conto di essere uno dei primi italiani mai entrati lì dentro. Ma il dubbio d'essere fuori posto è lo stesso che ha quello dietro la cassa del phone center ogni volta che entra in un negozio italiano.
Se dio (uno a caso) vuole, in alcuni phone center situati in luoghi strategici e spesso vicino a università o simili, si comincia ultimamente a notare un sano miscuglio di facce, colori e taglio degli occhi - italiani compresi.
Uno di questi, Jasmin Phone, gestito da un libanese dal sorriso perenne e dalla barba di matusalemme, mi ha fornito la rete per oltre tre mesi, quando a casa latitava - e più di una volta mi ha tenuto da parte chiavette o portafogli dimenticati lì - mentre con felicità osservavo un crescente numero di popolazione indigena milanese recarvisi per i motivi più disparati.
Una sera però, mentre posto date dei Ministri su Facebook seduto su uno sgabello pericolante, irrompe la Polizia. Sono in cinque, in borghese, e come da copione sono delicati e educati come cinghiali in un orto.
Il libanese sorridente viene assalito e gli viene intimato di mostrare per filo e per segno la navigazione dei due marocchini che avevo a fianco (uno alle prese con faccialibro come me, l'altro che guardava il sito di Trenitalia).
Il libanese sorridente (ora meno) cerca i tabulati ma il computer - che ha vent'anni e sta insieme col vento a favore - s'impalla. Nel frattempo, ai presenti è fatto ordine di non muoversi dallo sgabello pericolante, e i pulotti, sempre più minacciosi con chiunque in quella stanza non parli bene italiano (cioè tutti tranne me e una parte dei poliziotti), incominciano a chiedere documenti, permessi di soggiorno, motivi della presenza e dettagli sull'attività in rete di ciascuno dei presenti, per poi ricominciare a strigliare il libanese sorridente minacciandolo d'ogni cosa se non avesse tirato fuori una sequela infinita di documenti relativi al phone center.
Il libanese in questione ha una conoscenza dell'italiano pari a quella che ho io del cinese, figuriamoci cosa capisce di burocrazia strillata in calabrese dal pulotto antistante. In quanto italiano, sono l'unico salvo dal sospetto di attività terroristica, ma d'altronde nessuno capisce il motivo della mia presenza lì dentro - quindi per sicurezza mi tengono lì in stato di fermo.
Fuori, oltre il vetro con le tariffe per il Bangladesh, mi aspetta una persona - ma mi è proibito uscire o dirle cosa mai stia succedendo.
Per l'appunto, cosa stava succedendo? Cinque persone di nazionalità diverse si facevano i cazzi loro seduti vicini vicini davanti a computer rattoppati, chiedendosi occasionalmente aiuto casomai uno non fosse riuscito ad aprire la propria casella di posta o a stampare il proprio curriculum o a disimpallare il computer. E dietro il bancone, un libanese reo di non poter dimostrare quali cazzeggi avesse fatto su internet quello più arabo dei presenti.
Per trenta minuti, nel mio phone center di fiducia gli italiani sono in maggioranza - ed è il momento più brutto che abbia mai passato là dentro.
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