di Beniamino Franceschini
Ecco, quindi, che la mente si raffredda – seppur lentamente – tornando a pianificare un attacco più mirato: «Il calcio, – diceva Lineker, – è molto semplice: si gioca in undici contro undici, ma alla fine vincono i tedeschi». In effetti, la battuta non è lontana dalla realtà. Siamo onesti con noi stessi: eravamo speranzosi. Sulla Nazionale greca molti di noi avevano proiettato il desiderio di riscatto, l’ardente speranza di scrollarsi di dosso il gioco delle arroganti pretese tedesche, ma, in fondo, eravamo coscienti che Samaras e compagni non avrebbero potuto vincere. Al di là delle specifiche valutazioni sulla situazione greca, ritengo che tifare per gli ellenici, ieri sera, non fosse solo una scelta «politicamente corretta»: questa idea è stata esposta da Giuseppe Cruciani, e, pertanto, si assomma alla teoria di pronunciamentos arroganti e sprezzanti del conduttore de “La Zanzara”. In molti siamo andati oltre la somiglianza «di faccia e di razza», scorgendo nella Grecia l’antico orgoglio della libertà. Poco hanno importato i bilanci truccati, gli errori di Atene e l’irresponsabilità della sua classe dirigente. Credo che, con forza, si siano riattivati alcuni nostri geni ancestrali: le Termopili, il sirtaki, l’origine della Storia occidentale, le vecchiette con il foulard nero dietro un banco di olive, i profili nascosti dai grandi elmi. Abbiamo visto nella Grecia la sofferenza che potrebbe essere anche la nostra, l’inumanità della politica costretta a sottomettersi ai tempi frenetici della finanza deregolata, i risultati dell’accanimento di coloro che non perdonano gli sbagli, ma, anzi, li ribadiscono, nonostante da essi proprio gli investitori europei abbiano tratto vantaggio. Specularmente, ma in negativo, lo stesso meccanismo lo abbiamo applicato con i tedeschi.
Onestamente, lo ripeto, sapevamo che la Grecia non avrebbe superato la Germania: quello che ci si aspettava era che i giocatori non si arrendessero, lottassero e costringessero i teutonici a sudare. Bene: ci sono riusciti. Il calcio è anche politica. A volte è magia. Altrettanto, può essere un salto nella disillusione. Grazie ai greci per averci fatto sperare, per averci convinto che Golia possa essere sconfitto in qualche modo. La loro dignità come popolo deve spingerci a star vicino ad Atene, dal cui porto, ormai cinese – come i novelli amici del simpatetico Giuliano Pisapia – si promanò la gloria di Pericle. Dalla Grecia passa, piuttosto che il futuro dell’euro, la connotazione dell’Europa futura: unione dei popoli o camera di compensazione delle istanze tedesche, razionalizzazione del sistema produttivo di Berlino tramite la suddivisione del suo rischio economico e l’esaltazione della sua locomotiva, la quale, però, trascinerà solo vagoni o di prima o di terza classe (aut aut)?
Un favore calcistico, però, la Grecia l’ha riservato a chi dovrà affrontare l’undici di Löw in semifinale: i tedeschi non resistono al pressing, soprattutto se condotto sul portatore di palla all’altezza della propria trequarti. Con un buon centrocampo, folto e agguerrito, la Germania può essere fermata.
Beniamino Franceschini
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