Chiunque mastichi un minimo di letteratura per l’infanzia assocerebbe velocemente “la ricerca del pezzo perduto” al negativo lionnesco (negativo inteso come rovescio della medaglia) della navigazione speranzosa di pezzettini troppo piccoli e fragili per sentirsi compiuti.
Le associazioni, tra i due lavori, indubbiamente sono possibili.
Il tema dell’incompletezza del sé percepito e la ricerca, più o meno fruttuosa, di un qualcosa in grado di colmare i vuoti. La frustrazione che nel cammino si può incontrare. Il finale riscattante e positivo, che mette al centro l’essere che con le sue mancanze è comunque unico e di valore.
Ma mentre Lionni – coi suoi collage e i suoi colori – centralizza l’esito della ricerca, la scoperta e la rivalutazione del sé e affronta, con maestria psicologica ineguagliabile, temi quali l’integrazione, il bisogno di riconoscimento, la paura del distacco, la fatica del crescere, in un albo che è essenzialmente rivolto ai bambini che, diventando grandi, si pongono domande legate al bisogno di identità e di riconoscimento, il lavoro di Silverstein – coi suoi tratti essenziali e la monocromia – si pone da un altro punto di vista mettendo in luce il cammino e la possibilità che le utopie, qualora si mutino in realtà, mostrino una faccia diversa da quella che si era immaginata.
Partirei con l’affermare, un po’ controcorrente rispetto alla sua destinazione sugli scaffali delle librerie, che “Alla ricerca del pezzo perduto” non è necessariamente un albo per bambini, come d’altra parte gli altri libri dello stesso autore.
Gli argomenti trattati, o meglio le suggestioni lanciate, infatti possono incontrare felicemente riflessioni appartenenti a tutte le età, e a ciascuna dare materiale su cui soffermarsi.
La malinconia inoltre, condita da una punta di amarezza pur quando edulcorata da un lieto fine o accesa da un sapiente umorismo, di Silvertein fa sì che le sue pagine possano essere sovente metabolizzate più fruttuosamente da un adulto, che già conosce per esperienza i chiaroscuri della vita e i finali che non sono mai lieti al cento per cento.
Un cerchio imperfetto, con una mancanza a forma di spicchio che assomiglia, più che a un difetto, a una bocca per ridere e parlare, si mette alla ricerca del suo pezzo perduto.
E lo fa, sebbene si dichiari già in principio la sua infelicità, con allegria, cantando addirittura, procedendo rotoloni e lentamente per la sua via.
Il cammino non è breve per nulla, le intemperie ci sono, le salite anche, le discese assicurate e i terreni non sono sempre agevoli.
Ma – ahimè – c’è quello che non è d’accordo e si sente già completo così com’è, c’è l’altro che è troppo piccino e ancora uno che è troppo grande. Ci sono quelli che non hanno la forma giusta, e altri che vengono tenuti troppo stretti o, al contrario, non abbastanza da non perderli per la via…
Insomma, gira che ti rigira, rotolando per rotolare, il cerchio non riesce a trovare ciò che va cercando.
Sarà davvero migliore ora la vita? Ora che la perfezione conquistata renderà tutto più veloce? Che non ci sarà più bisogno di procedere piano piano per cercare, capire, indagare, osservare?
Il tondo perfetto, si sa, rotola via di gran carriera, l’attrito per lui non è più un nemico, gli spigoli non ci sono più ad impacciare la corsa e, particolare da non trascurare, senza uno spicchio vuoto a forma di bocca non si può né ridere né cantare.
E allora? Bisogna scegliere ad un certo punto se sentirsi arrivati o continuare a cercare…
Sicuramente evidente è l’elogio della ricerca, del viaggio e la convinzione che la felicità non si trova all’arrivo ma per la via, soprattutto quando, esplorando, si affinano i sensi e si è nella condizione di cogliere il bello – e perfino il brutto – di ciò che è intorno.
Parimenti chiaro è l’intento di sottolineare la perfezione come uno stato, oltre che irraggiungibile, anche poco desiderabile, nella convinzione che sia spesso il difetto ad aprire la strada al piacere e perfino, perché no, alla bellezza e all’unicità.
Io, poi, trovo tra le pagine di Silverstein una grande onestà emotiva, là dove non tace di fronte alla frustrazione che anche si annida nel ricercare – e nel trovare le risposte, o le persone, o le esperienze, sbagliate.
Allo stesso modo egli non cela il dolore della perdita, tra le righe si percepiscono echi rarefatti di abbandono, di separazione, di delusione…
Proprio per queste suggestioni avverto che il libro abbia anche dei riferimenti al tema dell’amore, della ricerca dell’anima gemella, degli errori che si possono compiere in un legame di coppia e della difficoltà nel sapersi trovare, conservare, completare. Ma questa, forse, è una chiave di lettura più ardita e del tutto personale.
Le illustrazioni, quasi facendo da contraltare alla complessità tematica dell’albo, sono estremamente essenziali, quasi elementari e la mano del grande autore si scorge proprio nella capacità di rendere esaurienti, espressivi e narrativi degli schizzi di pochissime linee in bianco e nero.
Mantenendo costantemente la linee dell’orizzonte –che poi è( la linea del viaggio, ciò che tiene insieme lo spazio-tempo della narrazione – ferma a circa un quinto (in basso) della pagina, Silverstein fa muovere il suo personaggio tra una doppia facciata e l’altra, aggiungendo al quadro solo ciò che è estremamente necessario per la storia.
L’effetto è calamitante e potente: costringendo il lettore a mantenere salda e ferma l’attenzione permette di cogliere pienamente senso e sfumature, tanto che l’evolversi del racconto, e anche le variazioni emotive, potrebbero essere chiare addirittura senza le parole.
Vale comunque la pena di specificare che, come per l’altro libro di Shel Silverstein edito da Orecchio Acerbo (“Lafcadio. Il leone che mirava in alto”) anche qui il testo è bilingue: grande in nero in italiano, più piccolo in color ocra in lingua originale inglese.
(età consigliata: dai 4 anni)
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