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Alla scoperta di Radio Papesse: dove produrre cultura è pura resistenza

Creato il 15 febbraio 2014 da Addamico @addamico

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Sono arrivata a Villa Romana – splendido edificio sulle colline di Firenze acquistato dal pittore Max Klinger nel 1905 e oggi prestigioso centro di cultura tedesca e residenza per artisti – in un piovoso pomeriggio di gennaio. Ad aspettarmi, Ilaria Gadenz e Carola Haupt, le due socie fondatrici di Radio Papesse (il terzo, Cristiano Magi, ha poi intrapreso una strada personale).

Radio Papesse è una web radio nata nel 2006 a Siena per parlare di arte contemporanea in maniera originale, e da alcuni anni è ospite di Villa Romana.

Ho raggiunto Carola e Ilaria (classe 1981) dopo aver varcato un grande cancello, attraversato un ingresso con pavimenti da salone delle feste e percorso rampe di scale così strette e ripide da farmi pensare alla torre di un castello. Inizialmente ho pensato di trovarmi in una Downton Abbey formato Firenze, ma alla fine dell’intervista ho avuto la certezza che in quell’accogliente studio in cima a Villa Romana ci fosse una cellula di battagliere e agguerrite produttrici di cultura.

Iniziamo proprio da Villa Romana: quando siete arrivate qui?

Siamo ospiti di Villa Romana da circa tre anni. Prima di allora la frequentavamo, come spettatrici, in occasione delle mostre. E’ stata la direttrice Angelika Stepken a offrirci questa opportunità quando eravamo alla ricerca di una nuova sede, dopo aver saputo che il contratto che ci legava al Centro d’arte contemporanea di Siena – SMS Contemporanea, ex Palazzo delle Papesse – non sarebbe stato rinnovato.

Da Siena a Firenze: come è andato questo passaggio?

Alla scoperta di Radio Papesse: dove produrre cultura è pura resistenza
Bene! Quando abbiamo lasciato Siena, la città era all’inizio della sua ‘implosione’; da tempo ci mancavano interlocutori e referenti istituzionali e il trasferimento a Firenze era nell’aria.

Possiamo dire che il nostro ingresso ufficiale a Firenze sia stato la partecipazione, nel 2011, alla Notte Bianca. Volevamo fare qualcosa di originale e che non passasse inosservato (operando in un campo di nicchia come quello di una radio web che si occupa di arte contemporanea abbiamo spesso il problema della visibilità) e così è nata l’idea della Radio a Pedali.

In cosa è consistita esattamente la vostra iniziativa?

Si è trattata di una parata di bici organizzata per le strade di Firenze e accompagnata da una colonna sonora d’eccezione: il concerto dell’Orchestra e del Coro del Maggio musicale fiorentino, diretto da Zubin Mehta, e trasmesso in diretta da Radio 3. Avevamo invitato chiunque volesse partecipare a venire con la propria bici e una radio e, sintonizzandoci tutti sullo stesso canale, abbiamo attraversato la città. Le prime pedalate sono partite all’avvio del concerto e siamo arrivati davanti al Teatro del Maggio sulle note di chiusura.

Nei momenti di maggiore afflusso abbiamo coinvolto fino a 300 ciclisti. Un’esperienza impegnativa sul piano organizzativo, e per cui è stato fondamentale l’aiuto di Firenze in Bici e dei ragazzi della Critical Mass con i loro risciò attrezzati di altoparlanti, ma è stato commovente vedere tante persone, così diverse tra loro (il bambino in monopattino, l’hipster, gli sportivi, famiglie intere), pedalare insieme per la città e scoprire quanta energia possa scaturire dalla condivisione della musica. Sono molti, ancora oggi, a chiederci di ripeterla.

Da dove siete partire per un progetto del genere?

Avevamo due idee di fondo: l’esigenza di proiettarci in un ambiente nuovo come Firenze e quella di riflettere sull’idea stessa di Notte Bianca. Per una realtà piccola come la nostra, le cui attività sono spesso usufruite in cuffia, quasi con un approccio intimista, l’idea di entrare in un contesto di produzione culturale molto rumoroso (fisicamente e metaforicamente) era un’opportunità importante.

Alla scoperta di Radio Papesse: dove produrre cultura è pura resistenza
Inoltre, volevamo capire che tipo di energia culturale potesse emergere da un’esperienza del genere. Che cosa rimane di una Notte Bianca? La nostra scelta è stata di portare una musica elitaria come quella del Maggio per le strade della città, aprendola a un pubblico di tutti i tipi.

Che idea vi siete fatta sui luoghi della cultura fiorentina?

Negli ultimi due anni abbiamo la percezione che a Firenze si stiano muovendo molte cose; stanno nascendo, e anche morendo (e questo non è del tutto negativo), tante esperienze. Pensiamo ai collettivi, agli spazi non-profit, a quelli autogestiti, alle piccole gallerie. Si tratta di meteore? Forse sì? Ma è comunque espressione di un fermento vitale. Quello che manca, a nostro avviso, è il concetto di distretto del contemporaneo. Certo, non è facile parlare di distretto in una città piccola come Firenze, ma in passato è già accaduto, per Prato ad esempio, grazie alla presenza di studi di artisti, alle attività del Teatro Metastasio, del Museo di arte contemporanea e di altri spazi.

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A Firenze ci sono luoghi culturali importanti, come Villa Romana, o la Strozzina – una realtà che ha lavorato benissimo sulla costruzione del pubblico – ma manca un’idea di progettualità condivisa e politiche culturali organiche che diano opportunità reali ai vari attori sul territorio.

Ci sono molte realtà vitali in questo senso: come il Vivaio del Malcantone, un luogo di produzione molto attivo, e l’associazione culturale Fosca, che nel quartiere di Rifredi fa delle cose bellissime. Il successo di un luogo è determinato dalle persone che lo vivono e dalla costante relazione che lo lega al territorio e non da progetti calati dall’alto…

Purtroppo ci sono anche delle occasioni mancate e situazioni ancora irrisolte in città: come il Parco della musica, non progettato per rispondere alle esigenze di ensemble o gruppi diversi da quelli della dimensione orchestrale; oppure il Forte Belvedere, Le Murate, e l’Ex3, un modello culturale che in quartieri periferici di altre città ha funzionato.

Cosa non ha funzionato?

Molti pensano che, per chi fa produzione culturale, basti uno spazio. In realtà quello che serve veramente è la possibilità di sviluppare una progettazione a lungo termine. Tutti gli operatori culturali sanno bene che non ci sono soldi, ma hanno bisogno di qualcuno che investa su di loro.

Per esempio per noi è fondamentale il supporto che ci arriva da Villa Romana; qui non riceviamo soldi, ma abbiamo uno spazio dove sviluppare i nostri progetti e incontrare persone che lavorano nel nostro ambito, senza dover sostenere delle spese.

È un’ospitalità temporanea, ne siamo consapevoli, ma grazie ad essa riusciamo a sviluppare progetti di residenze per sound artist, lavoriamo all’organizzazione di workshop. Tutte idee e spinte che ci arrivano da questo contesto. E’ come se vivessimo con un grande cloud di idee sospese sulla testa!

Ci raccontate il vostro lavoro?

Come team di Radio Papesse produciamo format, documentari radiofonici, percorsi museali sonori, soundwalk, audioguide. Ma lavoriamo anche nella produzione di lavori altrui, come nel caso di “Nuovi paesaggi”, una residenza per artisti sonori realizzata a Villa Romana insieme alla curatrice Lucia Farinati, con cui abbiamo partecipato al bando regionale Toscanaincontemporanea2011.

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Abbiamo invitato cinque artisti (Viv Corringham, Mikhail Karikis, Laura Malacart, Allen S. Weiss, Davide Tidoni) a trascorrere due settimane in Toscana e a confrontarsi con il medium radio per raccontare un angolo di questo territorio. Una produzione molto articolata che ha comportato 12 mesi di lavoro e coinvolto diversi luoghi: Carmignano, Larderello, Firenze, Santa Croce sull’Arno.

Alla fine abbiamo presentato cinque lavori radiofonici, di cui siamo state committenti e produttrici. L’obiettivo era riuscire a dialogare con il territorio e a scardinarne cliché consolidati attraverso il suono.

Un’esperienza conclusa?

Non proprio. Nella primavera del 2013 Mikhail Karikis, uno dei cinque artisti coinvolti, ci ha proposto di affiancarlo nel secondo capitolo del suo progetto su Larderello, e abbiamo accettato. Questa volta abbiamo coinvolto scuole, istituzioni pubbliche, singoli cittadini ed Enel, con l’idea di realizzare qualcosa che rispecchiasse in pieno le condizioni socioeconomiche di questa area e creasse un forte impatto emotivo sia sugli abitanti del territorio, sia sulle persone esterne ad esso.

Mikhail Karikis ha realizzato un film di 15 minuti, Children of Unquiet, girato tra Larderello e il Parco delle Biancane con protagonisti 40 bambini. Abbiamo lavorato con due cori di voci bianche, quello della Società corale Guido Monaco di Prato e quello fiorentino ViviLeVoci di Rifredi, affiancati dagli alunni di una classe dell’Istituto Comprensivo Tabarrini di Pomarance, coinvolti da Mikhail in un laboratorio di sensibilizzazione all’ascolto.

Nel film sono proprio le voci dei bambini a fare da colonna sonora alle immagini, sono loro a riprodurre i suoni della geotermia. Un lavoro molto poetico, e anche profondamente politico, presentato nella sua versione integrale in ottobre ad Art Sheffield, in Inghilterra, un festival dedicato quest’anno proprio al rapporto tra identità e lavoro.

Un tema molto impegnativo da affrontare…

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Alla base di tutto c’è l’interesse di Mikhail per il rapporto tra identità personale e collettiva nella società contemporanea, una riflessione che lo ha portato ad approfondire il suo lavoro. Larderello, infatti, è l’esempio di un’economia post-industriale che, a partire dagli anni Settanta, perde completamente la connotazione di luogo di innovazione urbanistica e sociale voluto dall’architetto Giovanni Michelucci, che lo aveva progettato con spirito utopico e trasformato quasi in sogno olivettiano.

Un declino che ha combaciato con l’automazione delle centrali elettriche e dell’estrazione geotermica e ha portato allo spopolamento di interi villaggi. Il direttore della Fondazione Michelucci ci ha raccontato come l’azienda (prima Società Chimica Larderello e poi Enel), con l’avvento delle nuove tecnologie e la sua internazionalizzazione, non sia più stata interessata al welfare sociale dell’area, diventato un conglomerato nomade di imprese.

Cosa è rimasto della Larderello delle origini, oggi?

L’Enel ha ceduto gli immobili di Larderello al Comune di Pomarance che, attraverso un bando, ha concesso a fronte di costi inferiori a quelli di mercato, gli appartamenti ormai vuoti a coppie giovani, immigrati, ma anche pensionati legati a questo luogo da vecchi ricordi. Molte persone che abbiamo intervistato ci hanno raccontato con nostalgia la loro vita a Larderello: avevano a disposizione un teatro, il cinema, il circolo, e le case erano progettate con ogni comfort.

Naturalmente il film di Mikhail non dà risposte risolutive alla crisi, ma vuole porre un interrogativo: in questa fase di rinascita di Larderello, sono stati ascoltati i bambini? È stata data loro la possibilità di vivere una narrativa diversa da quella già preimpostata che li vuole costretti a fuggire perché senza futuro nel loro territorio?

I bambini nel video sono i protagonisti di un’occupazione giocosa di Larderello e mentre si muovono tra queste strutture abbondate, li sentiamo leggere dei testi di Micheal Hardt in cui si parla di amore come forza rivoluzionaria. Forse la risposta migliore all’attuale stato di cose….

Il film sarà presentato anche qui a Firenze?

Dopo la Biennale di Sydney, a marzo, arriverà in luglio a Villa Romana dove Mikhail presenterà l’intero progetto, che riserva ancora delle sorprese, persino un gioco in scatola!

Radio Papesse deve molto al web?

Il successo del nostro progetto deve molto al contesto vitale di Siena agli inizi del 2000 (è qui che nasce la prima radio universitaria italiana) e all’incontro con Marco Pierini e Lorenzo Fusi, rispettivamente direttore e curatore del Palazzo delle Papesse. C’era la voglia di creare un progetto che parlasse di arte senza usare l’immagine e si concentrasse sull’aspetto sonoro. Ci venne data carta bianca, e da studenti universitari la scelta non poteva che cadere sul web, per ovvi motivi economici.

Nei vostri lavori arte e suono spesso s’intrecciano, ricordate un esempio di contaminazione tra queste due espressioni creative che vi ha particolarmente colpito?

Per quel che riguarda esperienze che mettono in relazione musica e opere visive esiste un progetto bellissimo alla Tate, si chiama Tate Tracks, e consiste nell’invitare artisti della scena musicale contemporanea (hip hop, indie, rock ecc…) a comporre un lavoro sonoro ispirato a una delle opera della collezione del museo.

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In un’edizione sono stati coinvolti persino i Chemical Brothers. La consideriamo un’occasione importante per avvicinare pubblici diversi (se sei un appassionato dei Chemical Brother non è detto che tu sia un frequentatore di musei contemporanei) e sicuramente un’operazione interessante sul piano della comunicazione.

Un caso che ci riguarda da vicino è quello degli Alpin Folks, un duo di dj di Firenze, formato da Martino Margheri e Alessandra Tempesti. Gli Alpin Folks si sono presentati al pubblico per la prima volta su Radio Papesse, proponendo set tematici ispirati alla montagna. Ogni set è una narrativa che racconta l’ascesa e la discesa da una vetta, un susseguirsi di suggestioni epiche, emotive che riportano alla memoria scenari romantici, la magnificenza di certe riprese cinematografiche o documentaristiche.

La musica è uno strumento di narrativa fondamentale oggi?

Non sempre. Quando facciamo interviste o documentari stiamo molto attente al tipo di musica che usiamo, se è troppo narrativa può distrarre. Tentiamo di scegliere la musica che meglio si accorda al mood della situazione che descriviamo o alla voce del nostro interlocutore, cerchiamo il sentiment e non l’effetto a tutti i costi.

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L’anno scorso, per esempio, abbiamo partecipato all’Estate fiorentina con un progetto di narrativa sonora, Arno Atlas, insieme al compositore Giulio Aldinucci. Abbiamo realizzato delle storie sul rapporto tra Firenze e l’Arno dove il suono era uno degli attori, non certo la colonna sonora.

La vostra formazione?

Carola: Ho una laurea in Scienze della Comunicazione, con indirizzo radiofonia; dalla radio dell’Università l’interesse per la radio arte mi ha portata al Palazzo delle Papesse e da lì l’esperienza di Radio Papesse.

Ilaria: Laurea in Scienze della Comunicazione, con una specializzazione in studi semiotici; in radio sono arrivata occupandomi di una trasmissione su letteratura e dintorni.

Che tipo di rapporto instaurate con gli artisti residenti a Villa Romana?

Ogni anno Villa Romana ospita  quattro artisti vincitori del premio Villa Romana. Inizialmente riservato ad artisti tedeschi, il premio da alcuni anni è aperto anche ad artisti che operano in Germania (l’anno scorso, per esempio, tra i residenti c’era la canadese Shannon Bool, insieme a Mariechen Danz, Heide Hinrichs e Daniel Maier-Reimer).

I quattro borsisti arrivano il 1° febbraio e per dieci mesi hanno a disposizione un atelier e un appartamento. Come appuntamenti fissi di presentazione al pubblico fiorentino: la mostra iniziale a febbraio e gli  Open Studios di settembre. Gli artisti residenti nel 2014, di cui fanno parte due coppie artistiche, sono: Natalie Czech, Loretta Fahrenholz, Petrit Halilaj + Alvaro Urbano, Ei Arakawa + Sergei Tcherepnin. Naturalmente, trovandoci a condividere gli stessi spazi, è abbastanza facile che nascano dei rapporti, soprattutto a livello umano.

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Nel 2013 avete anche ottenuto un grande successo: la vittoria del premio ARS/Arte che crea occupazione sociale con il progetto “Trame di Lunigiana”, in palio una cifra incredibile: un milione di euro. Ci raccontate questa esperienza?

L’idea è nata anni fa dall’interesse delle due associazioni del gruppo – Lo Spino Bianco e Radio Papesse – per un percorso di guida ai castelli della Lunigiana, a partire dalla produzione di contenuti multimediali per la loro valorizzazione.

L’incontro con Sebastiano Peluso – che ha all’attivo esperienze di successo in ambito di destination management e tecnologia – e la Fondazione Promo PA, con il suo portato decennale di lavoro e progettazione al fianco delle pubbliche amministrazioni, ha reso possibile lo sviluppo di un progetto forte al quale fin da subito hanno aderito realtà imprenditoriali toscane – da Florencetown a Geographike e Globalbase -  e soggetti istituzionali locali come l’Istituto di valorizzazione dei castelli.

Tutti insieme formiamo il team di Trame di Lunigiana. È stato un anno di lavoro intenso e una palestra davvero incredibile. Ora ci troviamo in una situazione nuova per noi: una programma di lavoro definito nei dettagli sino al 2016!

Come avete accolta la notizia della vittoria?

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È stato molto divertente: la cerimonia era organizzata come una notte degli Oscar.

Ci siamo ritrovati a Roma, insieme agli altri nove finalisti, e quando hanno proclamato il nome del vincitore nessuno di noi se lo aspettava, abbiamo esultato per così tanto tempo che è dovuta arrivare un hostess per invitarci a salire sul palco, ed eravamo veramente in tanti!

Cosa pensate abbia convinto la giuria a premiare “Trame di Lunigiana”?

Sicuramente l’alta replicabilità del progetto. L’aspetto di attivazione territoriale è stato fondamentale, e determinante il fatto che il progetto puntasse sia sull’attività turistica sia sulla produzione culturale. Inoltre, come Radio Papesse ci piaceva l’idea di pensare le nostre produzioni all’interno di un immaginario così interessante da investigare, come quello dei castelli, sperimentando formati e tecnologie diverse.

Prossimi impegni in programma?

Stiamo lavorando per riuscire a portare a Firenze, nella forma di un simposio,  Süden Radio. Si tratta di un progetto dedicato all’idea di sud e ai suoi stereotipi, i cui risultati sono stati presentati a Berlino in una mostra a cura di Angelika Stepken, ospitata nella Deutsche Bank KunstHalle.

Siamo partite chiedendoci – e chiedendo via open call ad artisti, musicisti e producer – se esista un cliché del sud che viene perpetrato anche nella storia sonora e la risposta è stata sì. Tra i 40 artisti selezionati, è stato premiato l’argentino Joaquin Cofreces, per il suo lavoro sugli Yaghan, una popolazione nomade della Terra del fuoco, la cui storia e tradizione, solo orale, è affidata all’unica donna superstite.

Joaquin ha trascorso un anno con lei, registrandola e riuscendo a ricreare, attraverso il suono, un immaginario che viaggia tra presente, passato e futuro. In questo caso la narrativa è data dalla voce di questa donna, che non capisci, e che diventa quasi una poesia sonora.

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Nel portare avanti il progetto vorremmo invitare ricercatori e artisti ad approfondire il discorso, focalizzandoci innanzitutto sul bacino del Mediterraneo. Ma è ancora troppo presto per entrare nei dettagli del progetto…

Qual è la definizione che meglio vi rispecchia?

Noi ci sentiamo delle producer radiofoniche. Pochi giorni fa abbiamo scoperto di essere citate in un libro di marketing museale, e questo ci ha fatto molto piacere, così come ci teniamo molto a dire che i contenuti del nostro archivio, ad esempio le oltre 250 interviste, sono a disposizione di tutti, soprattutto degli studenti.

È importante che il lavoro di Radio Papesse venga percepito come un servizio a disposizione di quanti ne abbiano bisogno. Noi siamo nate dentro il pubblico e molte delle cose che facciamo sono realizzate grazie ai finanziamenti pubblici.

Rispetto agli inizi dell’avventura di Radio Papesse cosa vi caratterizza oggi?

All’inizio c’era da parte nostra molta curiosità e anche l’ambizione di essere presi sul serio. Nel 2009 alla Biennale di Venezia abbiamo intervistato l’artista cileno Alfredo Jaar. È stato quasi un assalto al Cremlino: noi così ‘piccole’ davanti a un grande dell’arte contemporanea; l’anno dopo, a Liverpool, ci siamo incontrati nuovamente e ci ha concesso la seconda intervista, riuscendo a conoscerlo meglio. Pochi mesi fa, ritroviamo Alfredo Jaar tra gli ospiti della Biennale di Venezia e incontrandoci per la terza volta ci ha sorriso e salute così: “Radio Papesse, pura resistencia!”

Ecco, diciamo che finché non capiamo bene cosa significa una parola tanto di moda oggi come “resilienza”, noi scegliamo la resistenza!

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Cosa vi avevo detto? Altro che Downton Abbey, qui si fa sul serio. Perché, diciamo la verità, resilienti si diventa, ma resistenti si nasce!


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