Magazine Società

Alle terme di Roma

Creato il 30 luglio 2015 da Andreapomella

Un pezzo mio uscito due giorni fa su Studio.

*

Ne La dolce vita c’è questa scena. Una folla è radunata davanti a una caserma dei carabinieri. Nella caserma sono rinchiusi due bambini che dicono d’aver visto la Vergine Maria. Paparazzo e altri due reporter si insinuano nella caserma, dove scovano la madre, il padre e il nonno dei bambini. Li accompagnano fuori in balcone e li inducono a mettersi in posa per scattare qualche foto. Il padre dei ragazzini, con accento tiburtino, dichiara: «È un effettivo miracolo, la Madonna se ricorda de tutti!». Poi, guardando nell’obiettivo della macchina fotografica, chiede ansioso: «Sto bene così?».

È sabato. Roma è assediata da quaranta, desolanti gradi. Le strade e i tetti della città riverberano come in un incendio. Io, A. e il bambino arriviamo a Bagni di Tivoli. Sono le nove e mezza del mattino, parcheggio in una traversa della Tiburtina, accanto a un vecchio lunapark deserto con le macchine a scontro coperte da grigi teli mortuari. La luce è un fuoco bianco, il traffico è pesante, ci sono in giro più macchine che persone. Davanti alla facciata in stile neoclassico del complesso termale – le terme di Roma, come vengono sfarzosamente chiamate – respiro un’aria da Meridiano Mondadori: mi sembra di vedere il fantasma di Proust a braccetto con la madre nella stazione termale di Mont-Dore, o quello di Thomas Mann con Katja Pringsheim e i loro sei figli a Bad Tölz in Baviera. Le qualità benefiche di queste acque sono note dai tempi antichi, ma io cercavo più semplicemente una piscina in cui far sguazzare mio figlio, che ha cinque anni e che, da fine giugno, ossia da quando la materna ha chiuso i battenti, sta impazzendo di caldo e di noia su un tappeto di un metro per due al terzo piano di una palazzina di Roma nord.

Davanti allo stabilimento termale l’aria è malinconica. C’è un grosso bar dismesso il cui ingresso è ostruito da una fila di bandoni in lamiera. L’insegna dice: Gelateria Snack Bar Pasticceria Al Paradiso. C’è una birreria, una cartolibreria e svariati Compro oro. È da queste parti che Fellini ha girato la scena del miracolo. Ed è qui che, lambito dall’odore sulfureo delle acque, entrando nelle piscine, mi sento investito da un soffio leggero d’aria frizzante, una correntina che mi rigenera ogni singolo atomo e che, come il padre dei ragazzini miracolati de La dolce vita, mi fa esclamare: «La Madonna se ricorda de tutti!».

Ecco, io non so se sia proprio merito della Madonna. Fatto sta che la prospettiva delle piscine, i piccoli prati ben rasati, le aiuole, i padiglioni in stile palladiano con le cabine da cartolina anni Cinquanta, mi conciliano l’umore e abbassano il livello di stress che mi infesta le ghiandole surrenali. Eppure io sono il tipo che si annoia a morte nelle piscine, sulle spiagge, in tutti quei posti in cui le persone associano l’idea di vacanza con la demolizione sistematica di sé e degli ultimi brandelli della propria dignità.

Così, nel vasto prato punteggiato da palme e ulivi che attornia la piscina denominata La spiaggia, ci mettiamo in cerca di un posto all’ombra. Il pubblico dei bagnanti è variegato, per la maggior parte è composto da famiglie, ma c’è anche una discreta riserva di coppie, mucchi di adolescenti scatenati, ex ribelli che con l’età hanno conquistato un certo aplomb, sebbene i tatuaggi sbiaditi sui loro corpi color bacon ne testimonino i lontani ardori. Come il tizio che mi si para davanti mentre mi appresto al primo bagno di stagione, il quale sfoggia sulla pelle una scritta che gli copre la schiena da una scapola all’altra: L’amore dal vivo.

I tatuaggi sono una delle cose che mi piace guardare nei posti in cui la gente si aggira discinta, soprattutto se si tratta di text tattoo. Non perché sia un cultore di tatuaggi, ma perché, come scrive Melville in Moby Dick, un uomo tatuato è nella sua stessa persona un’opera meravigliosa in un solo volume. Di questi volumi unici è piena Bagni di Tivoli. Per esempio c’è una colonia di neonazisti con al seguito mogli e figli. Uno di loro esibisce la schiena grassa ricoperta di tatuaggi crudelissimi, mentre langue a mollo su un gigantesco coccodrillo gonfiabile. Un altro invece, sdraiato sotto la stessa palma in cui abbiamo messo radici noi tre, ha sul petto un fregio complicatissimo nel quale riconosco la scritta Carlo e Miriam. Mentre osservo il tatuaggio di Carlo, Miriam dichiara con una certa solennità: «Amo’, io me butto».

Scrutare le forme dell’amore è un altro ottimo passatempo per chi, come me, vive le consuetudini dell’estate con lo stesso entusiasmo di Prometeo per gli uccelli rapaci. C’è una coppia di anziani per esempio, di quelli organizzati, con ombrellone, tavolo, sedie, frigo portatile, giornale, carte da gioco e cellulare Panasonic fine anni Novanta. Lui ha una corporatura tozza, è gonfio, con una pelle tesa come quella d’una donna gravida. Lei ha in testa un fazzoletto da contadina da cui si intravede un bigodino. Parlano in dialetto abruzzese. Mi fa un po’ di malinconia perché è la stessa lingua che parlavano i miei avi. All’ora di pranzo spolpano ossa scure, abbacchio credo. Poi si fanno una partita a scopa, e mentre giocano, di tanto in tanto attingono a un gruzzolo di dischetti rossastri che sulle prime prendo per fiches e che invece sono fette di salame aquilano.

La testimonianza del costume di un’Europa al tramonto non è data però da questi due, tantomeno dalle numerose donne dell’Est che mostrano i segni di cesarei eseguiti male, come quelli che vedevo in spiaggia da ragazzino, trent’anni e passa fa, sui grembi delle madri italiane. La decadenza sono io. Io che mi guardo dall’alto in uno sdoppiamento sognato, riverso sul telo e con stampata sul viso una risata idiota, come quella di Noodles nella fumeria d’oppio, un grosso quarantenne schiavo delle proprie velleità artistiche che si rotola a pancia in su stringendo fra le braccia un enorme pallone gonfiabile marchiato Peppa Pig.

Insomma, faccio i bagni. Mi prodigo a far saltare in acqua mio figlio. I supertuffi, come li chiama lui. Gli insegno a impugnare la pistola ad acqua: «È così che si fa», sentenzio dandomi arie da Lee Van Cleef. Mi metto in fila davanti alla piscina denominata Piscina Centrale per tentare di godermi i getti d’acqua gorgoglianti sparati sulle vertebre cervicali, prima di desistere perché la concorrenza è delle più sanguinarie (tignosi anziani che una volta conquistata la posizione si producono in pose funamboliche per arrivare a farsi massaggiare fino all’ultimo osso del metatarso). Passeggio lungo i sentieri acciottolati tenendo d’occhio chiunque, da padri di famiglia che saltellano sugli alluci scalzi diretti al chiosco bar brandendo improbabili borsellini rosa, a lettori compulsivi di quotidiani sportivi che fissano con gli occhi spiritati la notizia sparata a tutta pagina: È già Baselli-mania! (mi interesso di sport il giusto e non ho cognizione di chi sia questo Baselli).

E così riesco ad arrivare vivo alle due del pomeriggio. Poi schianto. Raccogliamo le nostre cose e ci avviamo. Mentre ci trasciniamo esausti verso la macchina con le braccia rosse come salsicce, A. mi fa: «Stamattina, mentre venivamo, ho visto un Conad qui vicino. Che dici se ci fermiamo e facciamo la spesa?». Sulla strada soffia un vento bollente, il mondo a quest’ora assomiglia a un cosmodromo marziano. Digrigno i denti e accetto senza discutere. Le corsie del Conad sono deserte, sferzate dall’aria condizionata, c’è il solito tappeto sonoro, musica senza nerbo, commessi rilassati che sembrano molto felici di passare il pomeriggio in quest’hangar refrigerato. La cassiera ha i buchi dei piercing senza piercing, una cresta floscia, è indiscutibilmente sopra i quaranta, ma è di quei tipi strenui che non si arrendono. Si mette a scherzare col bambino: «Dove sei stato di bello?». «In piscina», risponde lui. Ci mette una vita a passare tutte le cose sul lettore ottico. Alla fine regala al bambino una shopper di stoffa. «Ringrazia la signora», dico a mio figlio. «Signorina», ringhia lei.

Rispetto al solito, la via sotto casa offre una quantità quasi sboccata di parcheggi. L’unico segno di vita è dato dal canto delle cicale. Sui balconi le tende da sole sono tutte abbassate, assomigliano a tante palpebre chiuse nella controra. Ci infiliamo nell’ascensore carichi di borse e buste della spesa. Una volta a casa, mio figlio si mette a giocare con la nuova shopper di stoffa sul tappeto di un metro per due. Io vado a farmi una doccia, mentre A. sistema la spesa nel frigo. Quando esco dalla doccia, il bambino mi viene incontro, mi guarda e mi fa: «Papà, oggi ti sei divertito?».


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazine