Negli ampollosi annali dell’integrazione dell’America Latina, la dichiarazione di Lima dell’aprile 2011 risalta per le sue rare combinazioni di brevità e impatto. In meno di tre pagine, i presidenti di Cile, Colombia, Messico e Perù hanno concordato di lanciare l’Alleanza del Pacifico.
Lo scopo era di promuovere una più profonda integrazione delle loro economie attraverso la libera circolazione dei beni, servizi, capitali e forza lavoro e attraverso il rafforzamento dei legami con il mondo in particolare con l’Asia, il continente d’oltreoceano Pacifico.
I quattro paesi lesti e spregiudicati bruciano le tappe e dopo due anni abbattono le tariffe sul 92% dei traffici commerciali con un tacito accordo di abolire tutte le barriere entro il 2020 e hanno “rottamato” i passaporti dei loro cittadini rendendo liberi di circolare tra i paesi dell’alleanza.
Nella sua breve vita l’Alleanza del Pacifico ha attratto come osservatori 34 paesi diffusi in 6 continenti. L’interesse suscitato negli outsiders verte principalmente sulla condivisione dei principi di libero mercato e di democrazia dei paesi membri.
Questi aspetti liberali distinguono questo trattato commerciale da altri accordi regionali più pubblicizzati, come il Mercosur che forse ha al suo interno una prevalente componente di dottrina di Stato, protezionismo e in qualche caso autoritarismo di paesi membri quali Argentina, Brasile e Venezuela.
La seconda calamita dell’Alleanza è la sua grandezza. Comprende infatti 200 milioni, possiede il 35% del PIL dell’America Latina e metà dell’esportazioni continentali.
La realtà induce ben altro all’interno del mercato dove i paesi separati da vaste distanze, pensate al Cile e il Messico, hanno pochi collegamenti e scarse vie di comunicazioni che permettono pochi traffici economici tra di loro.
Se esiste un equivalente latino americano alla potente catena manifatturiera dell’est asiatico, non poggia le sue radici nell’Alleanza del Pacifico, ma nell’integrazione economica tra il Messico e gli Stati Uniti.
Ma Cile, Messico, Colombia e Perù ci provano. Dopo il boom dei consumi la leva dello sviluppo affonda le radici almeno in questa parte di mondo sull’affidabilità di investire. Gli investimenti esteri sono il prodotto condiviso che tenta di attirare l’alleanza come merce di scambio per un più diffuso liberalismo all’interno del mercato unico.
Australia, Giappone e Corea del Sud guardano oltre il Pacifico in cerca di un potere capace di arginare la potente influenza cinese in America Latina.
E’ ora quindi di capire quanto è profondo l’amore e l’affidabilità del loro rapporto … nel segno del capitalismo.
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