Magazine Cinema
Era stato il bellissimo "Blue Jasmine" a farmi riappacificare con il cinema di Woody Allen, che, a parte qualche rara eccezione ("Sogni e delitti"), non riusciva più a conquistarmi fin dai tempi di "Harry a pezzi".
La sensazione che avevo vedendo "Magic in the Moonlight" era quella rassicurante di un rientro nella pura, consueta quotidianità (o meglio annualità) tardoalleniana. Scrivo rassicurante perché mi pare che, sempre di più, il cinismo, l'irriverenza e la potenza stessa del cinema di Woody Allen finiscano ormai per museificarsi, cristallizzandosi nelle figurine statiche di un cinema sempre uguale a se stesso, troppo sciapo e vetusto per poter battere ancora qualche colpo. Il conflitto tra ragione e irrazionalità (ancora!) tra illuminismo e occulto, è riproposto con la stanchezza programmatica di chi arriva sempre alle stesse conclusioni, di chi non si smuove di un millimetro dalle proprie convenzioni (e dalla propria maniera). E' un cinema rassicurante perché privo di sorprese, talmente prevedibile da essere perfino addomesticabile. Anche gli attori, allenizzati fino al midollo, perdono la loro credibilità: il buon Colin Firth è un burattino nelle mani del suo autore che utilizza tutto il repertorio possibile di faccette da commedia, Emma Stone sembra continuamente spaesata e fuori posto. Allen strappa qualche solito sorriso, per consumarsi poi in quel "basta che funzioni" che sembra la morale di gran parte del suo cinema degli ultimi quindici anni. Che la vita non abbia senso, ma non sia del tutto priva di magia, è il modesto traguardo di chi ha già chiuso nel cassetto tutto il vero dolore, i risentimenti e le acerbità della straordinaria Jasmine, ultima grande figura del cinema alleniano.
(il fatto stesso che vedendo un film di Woody Allen mi ritrovi a dire "sì, però che bella la fotografia" non mi pare affatto un buon segno).
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