Le piante psicotrope dell’Amazzonia nella miscela sacra dell’Ayahuasca per la cura spirituale e la discesa nello Spirito
Tre premesse. 1. Non intendo minimamente fare apologia degli allucinogeni* (Vedi Nota). – 2. Non intendo fare il “piccolo antropologo” da bar o da salotto. – 3. Ho vissuto per la prima volta l’esperienza allucinogena con l’Ayahuasca in una cerimonia guidata da sciamani Huni Kuin, che ho avuto l’occasione di ospitare a casa mia a Rio de Janeiro. Sono un popolo antico di ricche tradizioni culturali che vive, in semplicità, di agricoltura e Scienza Sacra delle piante, nelle foreste dello stato amazzonico dell’Acre in Brasile. Ne parlo su questo blog in questo precedente articolo: Sciamanismo e Medicina Sacra. E avrò occasione di dare approfondimenti. È solo che mi piace condividere. La seguente dunque è solo la cronaca, seppur emozionale, di un’esperienza molto profonda, da me vissuta personalmente. Esperienza che entra a far parte di un mio attento e articolato cammino di ricerca spirituale, iniziato ormai decenni orsono.
Ho appena assunto una dose di uno dei più potenti allucinogeni che ci siano al mondo, e nessuno può farmi niente. L’Ayahuasca in Brasile, per usi rituali e religiosi, è perfettamente legale. Non è “solo” un allucinogeno, ma una miscela di Piante Sacre e di Potere che gli indios usano da decine di millenni per curare l’anima e per incontrare gli spiriti delle foreste*.
Sono giunto con tre amici sul luogo dell’appuntamento designato per il rituale con un po’ di anticipo. Chi partecipa per la prima volta viene accuratamente intervistato da due psicologi. La casa e il parco, prestati per l’occasione, nei quali si svolgerà il rituale sono spettacolari, ma veramente spettacolari. Una costruzione recente, dove una veranda dà andito a una enorme sala, vetrata su due pareti ad angolo. Dal centro si diparte una scala, circondata anch’essa da una vetrata, per i piani superiori. Il parco, enorme, sulle montagne sopra Rio de Janeiro, è mozzafiato.
Al rituale parteciperanno un’ottantina di persone, inclusi psicologi, medici e ricercatori del Giardino Botanico di Rio. È presente anche un assessore ai rapporti con le etnie indigene dello stato dell’Acre, dove vivono gli Huni Kuin. La cerimonia sarà guidata da sciamani di questo popolo antichissimo, a Rio per la presentazione di attività culturali e di un libro sulla Medicina Sacra, realizzato in collaborazione con un istituto di ricerca del Giardino Botanico, l’Università, e altri enti. Partecipano anche l’editore, con lo staff che ha collaborato con i professori della foresta per realizzare il libro, patrocinato dal Ministero dell’Ambiente e dal Governo Federale del Brasile.
L’assunzione dell’Ayahuasca è solenne. Si tratta di una bevanda contenente due diverse piante psicotrope della foresta amazzonica, che gli indios conoscono e utilizzano da migliaia di anni. In fila ci si avvicina agli sciamani, in abiti da cerimonia sontuosi e con meravigliosi diademi di penne multicolori, i quali versano il contenuto di una caraffa in piccoli bicchieri rossi. Io chiedo che me ne versino solo metà. Devo confessarlo, ho un po’ di paura, poiché è la prima volta che ne faccio uso, e gli effetti dell’Ayahuasca sono del tutto imprevedibili, essendo legati alla psicologia del profondo di ognuno.
Sono diversi giorni che i Pajé (gli sciamani) da noi ospitati, ci preparano all’incontro con gli spiriti. Capirò nel corso della notte il perché di molte cose, avvenute nei giorni precedenti.
Ci troviamo in una radura dello spettacolare parco. Ottanta persone in circolo, con un grande fuoco al centro. Mi avvicino al fuoco, con una coperta sulle spalle, fa abbastanza freddo. Aspetto, ma non accade nulla e dopo un po’ comincia a piovere, costringendo tutto il gruppo a spostarsi nuovamente all’interno della sala della villa. Dopo un po’ di trambusto si riprende. Luci soffuse e il gruppo di Pajé, uno accanto all’altro, davanti a una delle ampie vetrate, con la foresta sullo sfondo. Le piante ondeggiano e cominciano i loro canti. Come dei mantra, armoniosi e arcaici, ripetuti in continuazione. Sdraiato sotto una coperta passo dal sonno al dormiveglia e alla veglia, per diverse ore, perdendo la nozione del tempo, ma senza percepire alcun effetto particolare. La scenografia è assolutamente spettacolare, con i Pajé nei loro sontuosi abiti e con i diademi, i volti serafici che trasmettono un profondo senso di pace e di equilibrio, illuminati dalla luce delle candele. Decido di assumere una seconda mezza dose e vedere cosa accade. Poi mi sdraio di nuovo a terra per meditare.
È durante l’ultimo risveglio per osservare la scena meravigliosa e ascoltare i canti ai quali tutti partecipano che arriva la botta. Il diadema di uno di loro diventa improvvisamente tridimensionale. Nessun’altra visione particolare, ma l’atmosfera diventa strana. Molti nella sala stanno viaggiando, volando, in quello che i Pajé chiamano “Cammino Incantato”, il “Sogno che cura”. L’Ayahuasca porta gli uomini verso i segreti della Foresta, degli Spiriti, di se stessi e dell’Universo. È “Medicina Sagrada”, profondamente spirituale.
A un certo punto, davanti alla parete sulla mia sinistra, un giovane Huni Kuin, seduto e con una chitarra in mano, intona un canto, insieme ad altri ragazzi, Carioca, che fanno parte del gruppo di Santo Daime di Rio, che ha organizzato la logistica della cerimonia. Il Santo Daime è un movimento spirituale che utilizza l’Ayahuasca, ma si tratta di un culto sincretizzato con il cristianesimo e il Candomblé.
Cantano parole di pace e di amore. L’atmosfera, di profonda unione, è straordinaria e dal quel momento le mie visioni diventano inarrestabili. Come essere su montagne russe psichedeliche, senza alcuna possibilità di pilotare, di fermarsi o di scendere. Sono in volo, e non ho altra scelta che lasciarmi andare. Capisco ora perché uno di loro mi ha detto qualche giorno prima che la guarigione è apertura, abbandono. Non ci sono altre strade. Capisco solo ora perché nei giorni scorsi Ibã, uno dei Pajé, mi ha messo un bracciale sul braccio sinistro e mi ha dipinto il braccio destro, ambedue recano simboli, tipo greche elicoidali, che nella loro cultura significano, tra le altre cose, semplicemente lo Spirito. “Ti daranno forza. È lo Spirito che ti ha agganciato, che ti assicura. Sarai figlio della forza.” – mi spiega Ibã. E in effetti è proprio quello di cui ho bisogno in quel momento, poiché le visioni sono al di là della mia capacità di sopportazione, discernimento e scansione. Devo metterci forza e coraggio. A occhi aperti è come se viaggiassi alla velocità della luce in un mondo che non è diverso da quello di prima, ma è incredibilmente più vivo e più profondo. Se chiudo gli occhi mi trovo di fronte la più incredibile sequenza psichedelica che si possa immaginare, in cui colori vivissimi si mescolano e si susseguono con figure di ogni tipo che non avevo mai visto prima e che non sono in grado di descrivere. Come infiniti filamenti che danzano in un universo di colori cangianti. Le visioni sono in relazione, mi dicono, a quello che ogni individuo ha nel profondo: dunque queste le trovo strane, poiché quanto vedo non riesco a metterlo in relazione con alcunché che abbia a che fare con la mia vita. È meraviglioso e, francamente, spaventoso al tempo stesso. Non so più cosa fare, cerco di controllare con le tecniche yoga la respirazione. Ma è difficile. Riesco solo a razionalizzare due cose. Nascondendomi il volto tra le mani, per sfuggire alle inarrestabili visioni a occhi aperti, la prima cosa che vedo è sì il buio, ma completamente diverso da come lo vedo di solito, ovvero una parete scura e basta. Questo buio, invece, è infinito e multidimensionale. Vedo come un tunnel a ogiva di infinite dimensioni che porta verso profondità di cui prima potevo solo sospettare l’esistenza. È a quel punto che comincio a piangere ininterrottamente. Sono commosso dalla semplice grandezza di quella visione assurda, ma anche dai canti e dal senso di unione con tutti. La sensazione è quella di aver intravisto con la coda dell’occhio, quella che potrebbe essere una vaga ombra di Dio. Sono seduto nella posizione del semi-loto. Quando riapro gli occhi ricomincia il volo ad alta velocità, pilotato, ormai lo so, dagli spiriti delle piante, per cercare di sfuggire al quale mi copro anche la testa con la coperta che ho portato. Ma è la coperta di una nonna, tutta traforata, e attraverso i buchi continuo a vedere la scena, con i canti, le luci e tutto il resto. Compare, da qualche parte, anche un occhio intelligente e di un azzurro intenso, che sembra sapere chi io sia, ma non mi giudica. Continuo a piangere, il creato è troppo grande, e arriva la seconda razionalizzazione. Ecco perché le persone si rotolano continuamente nel fango di miseria, politici corrotti, vuoti esistenziali, penosi attaccamenti, invidie, beghe di condominio, violenza e miserie umane. Perché, sebbene l’uomo sia programmato, come sosteneva il grande Paramahansa Yogananda, per incontrare Dio, ne ha il terrore assoluto. Non solo perché immenso, bensì anche perché sopportare l’amore assoluto richiede una forza inaudita, cosmica. Meglio le minuscole, piccole, certe pochezze quotidiane che vedere, avvicinare, affrontare anche solo lontanamente, gli ultimi sprazzi periferici dell’intelligenza universale assoluta, grandiosa, inimmaginabile e insondabile. Straordinariamente meravigliosa, ma anche assolutamente terrorizzante, praticamente insopportabile.
A quel punto comincio a sentire freddo, ma non quello che oggettivamente è presente in sala, di più, molto di più. Il freddo totale, cosmico, assoluto, che mi viene da dentro ed esce fuori, attraverso la sommità della calotta cranica. Decido di accettare l’aiuto offertomi poche decine di minuti prima da un ragazzo sdraiato di fronte a me, uno degli assistenti. Mi avvolge nella sua coperta e mi abbraccia. Ricomincio a piangere senza freno e dopo pochi secondi ci sono quattro persone intorno a me a sostenermi in un passaggio veramente difficile. Continuano le inspiegabili visioni e il freddo continua a uscire dalla testa, ed essere senza troppi capelli non aiuta di sicuro, così mi offrono di mettermi un cappello che mi avvolge tutta la testa. Devo risultare una delle visioni più comiche di tutto il viaggio collettivo, ma io continuo a piangere, fino a singhiozzare, come se qualcosa volesse uscire da dentro di me, per sempre. I due ragazzi e le due ragazze che ho di fronte e vicino mi stringono le mani e le braccia. Una di esse mi mette nelle mani una pietra e mi dice di stringerla. Non so quanto duri tutto questo, ma alla fine sono esausto. Vorrei crollare sdraiato, ma così riprende il volo inarrestabile. Cerco di resistere e lentamente riesco a riprendere un po’ di controllo. Dopo molto tempo tutti si alzano in piedi per un canto collettivo e riesco a farlo anch’io. La cosa strana è che, anche prima, durante le visioni, avrei potuto alzarmi come se niente fosse e andare in cucina a mangiarmi una banana, per poi ripiombare nel volo cosmico, senza controllo.
Mi sento meglio, e come liberato. Mi aggrego al cerchio di persone che, tenendosi per mano, canta insieme agli indios che sono di fronte, illuminati dalla luce delle candele. Quelli di fronte al cerchio sono in sette e altri sono sparsi per la sala. Sono meravigliosi da vedere e, quando pensavo fosse tutto finito, i loro volti e le loro fisionomie iniziano a cambiare. Diventano sette vecchi dai capelli lunghissimi, sette antenati dai volti antichissimi che ballano e cantano. Rimango esterrefatto, ma dopo un po’ cambiano ancora e diventano sette spiriti ancestrali, come maschere africane di spiriti senza tempo, veramente arcaiche, come provenienti da un tempo senza inizio, ma vive e che cantano e ballano. Una visione veramente sconvolgente, che dura diversi minuti. Più tardi Ibã mi spiegherà che la discesa degli ancestrali è proprio ciò che avviene. E un altro dei Pajé mi spiegherà che le parole delle musiche, non sono parte della lingua Huni Kuin odierna, ma antichissime e parlano di pace, unione, fratellanza e amore, tra gli uomini, con la Foresta Sacra e con gli Spiriti. Mentre le musiche stesse non sono composte, bensì già esistenti da millenni e tramandate da generazioni di maestro in discepolo. Il primo maestro, sostengono, ma non come se fosse una leggenda, bensì un fatto storico accaduto, è Jiboia, l’Anaconda, animale sacro delle foreste. Le spirali che ho dipinte sul braccio destro rappresentano lo Spirito, l’Anaconda, il serpente primordiale, ma anche (forse, ipotizza qualcuno) il kundalini e l’elica del DNA.
I canti durano ancora fino alle quattro del mattino, in un’atmosfera di sacralità, pace, unione e armonia meravigliose. In sala ci sono molti viaggiatori astrali esperti, che da tempo seguono il cammino incantato delle Piante Sacre. Non sempre le esperienze presentano componenti sgradevoli, possono essere delle nature più variate, rimanere profondissime, ma più controllate, può anche non accadere nulla. In linea generale, mi spiegano i Pajé, proseguendo sul cammino della Visione, si impara a “volare” serenamente, apprendendo gli insegnamenti dello Spirito, osservando la profondità della propria vita, aprendosi alla guarigione dell’anima, scandagliando il passato e il futuro.
Si termina con i ringraziamenti dei Pajé e di tutti. In tutta sincerità, dovessi individuare elementi fondamentali di questa mia esperienza, che ritengo straordinariamente profonda, sono l’amore, l’unione e la ricerca della verità. Tutto il resto sono strumenti funzionali a questo. Si tratta di un cammino sacro, non certo l’unico (come lo sono la meditazione orientale, la recitazione di mantra e di preghiere e altre pratiche spirituali), ma degno del più profondo rispetto. Di certo non è un’esperienza allucinogena tout-court da tardivi figli dei fiori. Per me si è trattato di un’esperienza spirituale e profondamente mistica. Sono grato ai maestri delle foreste antiche, di tutti i continenti, e credo che la speranza di tutti, anche di quelli che non lo sanno, sia quella che le loro tradizioni sopravvivano per illuminare l’arido cammino della nostra funzionale civiltà tecnologica (anche se senza dubbio utile e meravigliosa), aliena alla natura e assente allo spirito. In pochi giorni della scorsa settimana il mondo intero ha visto ulteriori stragi, aerei abbattuti, ancora omicidi e violenza senza fine. Possano gli Spiriti ancestrali delle foreste antiche aiutare tutta l’umanità a ritrovare il cammino incantato perduto.
Per ulteriori info e contatti:
https://www.facebook.com/maurovillone
Nota*: Gli allucinogeni sono innumerevoli, ma quelli più usati per scopi sacri e più potenti sono principalmente il Peyote, l’Ayahuasca, due specie di Datura, l’Iboga, la Segale Cornuta, alcune specie di Psylocibe e l’Amanita Muscaria, il fungo sacro. L’Ayahuasca è una miscela delle piante Kawa (Psychotria Viridis) e Hunì (Banisteriopsis Caapi). È legale in certi stati, come in alcuni posti il Peyote e in altri la Marjuana e l’Hashish, solo per usi sacri e rituali. D’altra parte la sua diffusione come droga quotidiana sarebbe molto difficile, visto gli effetti del tutto sconvolgenti. Sarebbe come pensare di assumere, in Europa, l’Amanita Muscaria, il fungo delle streghe (quello rosso a puntini bianchi per intenderci), come se niente fosse, il che è fuori discussione, viste le difficoltà a controllare il viaggio, per non dire le dosi corrette. Sono piante per la cura sacra spirituale e fisica. Inoltre tutte queste droghe è del tutto vietato, sul piano legale, assumerle al di fuori dei contesti sacri e assolutamente pericoloso farlo senza guide espertissime. Oltretutto si tratta di Piante Sacre e sarebbe una profanazione usarle solo per divertimento.
Io, Mauro, in uno scatto di Lidia Urani