Da qualche stagione la cinematografia tailandese ha risollevato decisamente la testa, imponendosi all’attenzione del mercato straniero e del circuito festivaliero tanto con il cinema squisitamente autoriale (basta pensare all’eccentrico e poetico Apichatpong Weerasethakul, regista di Tropical Malady o Sang sattawat), quanto con quello per così dire più commerciale, soprattutto sul versante action (Ong Bak, Born to Fight e The Protector, solo per fare qualche titolo) e horror. Proprio nel genere orrorifico si sono viste le cose più interessanti, ma destinate purtroppo a rimanere sconosciute alle platee italiane: da Dorm di Songyos Sugmakanan a 13 – Beloved di Chukiat Sakveerakul, da Sick Nurses della coppia Piraphan Laoyont e Thospol Sirivivat a Nang nak di Nonzee Nimibutr, passando per Art of the Devil 2 del Ronin Team al secondo capitolo del collettivo Phobia, per chiudere con il notevole Slice di Kongkiat Khomsiri. Buco che in qualche maniera prova a colmare annualmente il Far Est Film Festival, rinomata kermesse friulana dedicata al meglio del cinema popolare proveniente dall’Estremo Oriente, nonché principale avamposto e vetrina di cinema asiatico in Europa, con una ricca selezione di film griffati proprio thai. Un piccolo contributo in tal senso arriva anche da una società di distribuzione tricolore che, per una folle o brillante intuizione (questo saranno il tempo e il riscontro al botteghino a stabilirlo), ha deciso di avventurarsi in una coraggiosa strategia d’importazione, anche se in un periodo non particolarmente benevolo dal punto di vista degli introiti come quello di Agosto.
L’estate cinematografica nostrana si tinge infatti di rosso sangue grazie alla Wave Ditribution che, seppur con qualche annetto di ritardo dalla data di produzione, porta sugli schermi italiani un terzetto di pellicole horror ‘made in Thailandia’ davvero di buona fattura. Ma come si dice, meglio tardi che mai. Dopo Coming Soon di Sophon Sakdaphisit, esordio alla regia di uno degli sceneggiatori più apprezzati dell’Estremo Oriente che in madre patria ha conquistato letteralmente il box office (da noi ha sorprendentemente occupato il quinto posto per media copia nella prima settimana di programmazione), in attesa del primo e altrettanto fortunato capitolo del film a episodi 4bia (che potremo vedere a Settembre) tocca ad Alone il compito di regalare qualche brivido freddo lungo la schiena al pubblico di turno. Quest’ultima sancisce il ritorno nelle sale italiane di un’opera del duo formato da Banjong Pisanthanakun e Parkpoom Wongpoom, conosciuto dalle nostre parti per aver firmato nel 2004 il metafisico Shutter. Lo script anche in questo caso porta la firma di Sakdaphisit, che in Alone racconta la drammatica vicenda di una donna di nome Pim alle prese con il ricordo di una morte che l’ha segnata indelebilmente. Pim seppellisce il suo passato in Thailandia e comincia la sua nuova vita in Corea con un marito attento e amabile, Vee. La loro vita matrimoniale sembra essere fin troppo normale con un lavoro dignitoso e stabile, grandi amici, etc. Tutto sembra andare bene, finché Pim riceve una telefonata da Bangkok, in cui viene informata che sua madre è gravemente malata a causa di una patologia ancora non diagnosticabile. Pim torna allora con Vee nella sua città natale per stare accanto alla madre. Dal primo momento in cui arriva in Thailandia, avverte chiari flashback legati a quei ricordi passati. Ma c’è qualcosa di diverso in questi flashback. I lampi evocano un senso di calore innato che è simile alla sensazione di avere ‘qualcuno’ vicino a lei. La donna si ritrova costantemente ossessionata da questi sentimenti di persistente attaccamento che la costringono a confrontarsi col buio delle sue emozioni profonde, portandola, alla fine, a ricordare che la persona morta in passato è sua sorella gemella, siamese per la precisione, a lei attaccata fisicamente da un organo che univa due vite in modo tale da non poterle mai rendere libere e indipendenti l’una dall’altra.
Pisanthanakun e Wongpoom lavorano benissimo su un plot che già sulla carta non brilla certo per originalità, ma che i due cineasti trasformano in uno shocker dalla tensione palpabile e dal colpo di scena non così facilmente prevedibile. Apprezzabile è il modo in cui costruiscono la suspense senza optare per il solito gioco dell’incastro drammaturgico, evitando così l’immancabile effetto domino chiarificatore. Tutti i pezzi sono alla portata dello spettatore, che si trova così a giocare con gli autori una sorta di partita a scacchi. Manca solo la mossa finale, uno scacco matto che in realtà è stato sotto gli occhi dei partecipanti sin dalla prima inquadratura. Dunque, all’epilogo il solo compito di chiudere una partita dalle regole estremamente chiare.
Lo script di Alone non si basa sul fattore sorpresa, se non nel finale, ma sull’accumulo di tensione, che resta alta, tranne qualche piccolo scivolone qua e là. Anche se costruito su una storia che mette insieme elementi e stilemi preesistenti, dalla coppia protagonista formata da gemelli (qui la filmografia è vastissima) alla casa maledetta, senza dimenticare ovviamente il filone nel quale il film si va ad iscrivere, ossia la ghost story (di casa soprattutto in Giappone con una lista di titoli fittissima), questo horror non ha mai il sapore noioso del già visto, ma piuttosto di una buona variante. Guardandolo torna alla mente il thriller sudcoreano di Ji-woon Kim, Two Sisters (2003), che con il plot, i personaggi e le atmosfere claustrofobiche, ha moltissimi punti in comune. In generale, non è esaltante come la maggior parte dei titoli sopraccitati, ma conserva un suo carattere specifico come nel caso di Shutter. I due registi tailandesi non perdono mai di vista la storia e i suoi personaggi, lo dimostra l’attenzione per quei piccoli dettagli che in seguito si riveleranno fondamentali per la chiusura del cerchio.Grande attenzione per la messa in scena (ben supportata da una fotografia e da un montaggio di discreta fattura) e una regia efficace ed essenziale, al completo servizio della narrazione. Come in ogni shocker che si rispetti, il lavoro più importante è sul fuori campo, ed è proprio su questo fattore chiave che il film giustamente si poggia. Il sangue c’è, ma non trasborda, se non in sporadiche occasioni (vedi la pregevole scena della macchina del caffè nel corridoio dell’ospedale), così il raccapriccio lascia il posto a un orrore isterico che da latente finisce con l’infettare gli occhi di chi lo osserva.
Francesco del Grosso