Alps

Creato il 04 ottobre 2012 da Eraserhead
Il cinema scentrato di Lanthimos si avvale di un’ulteriore tassello che a questo punto agglomera in un unico flusso la - ad oggi - triplice veduta del regista greco (anche se IMDb riporta nella sua scheda un film del 2001 intitolato O kalyteros mou filos [My Best Friend]) e ne sentenzia, ritengo in modo inappellabile, lo status d’autore perché in Alps (2011) al pari di Kinetta (2005) e Dogtooth (2009) si dispiega il precipitato concettuale di un’artista coerente sia nella riproposizione di quelli che ormai sono dei topoi personali, sia nella confezione del prodotto, il tutto sotto il marchio dell’astrazione, un allontanamento di matrice neanche troppo velatamente seidliana che ovatta, che ispessisce il divario film/spettatore, che disorienta implacabile, che congela il dramma e lo riduce (ma senza sminuirlo) a farsa, che nuota agevolmente nelle paludi della meta-rappresentazione, che si fa beffa dell’humanitas, che si dimostra in ogni sua espressione cinema dell’insensibilità e che sancisce la genesi di un Uomo apatico-meccanico, subordinato senza consapevolezza ma con condiscendenza (altrettanto inconsapevole) alle imposizioni, spersonalizzato di qualunque riferimento proprio e quindi privo di un’immanenza dell’essere: gli uomini di questo regista, semplicemente, non-sono.
L’esplorazione del cinema di Lanthimos (al quale si deve aggiungere comunque anche Attenberg [2010] sebbene non porti la sua firma alla regia) trova una soddisfacente apertura analitica (almeno per chi scrive) proprio nell’identità e di riflesso nella non-identità dei personaggi in esso (nel cinema) contemplati [1]. L’assenza dell’individualità si rivela già con Kinetta l’asse portante di una linea che in Kynodontas deflagra nella prigione casalinga e le cui scorie si ripresentano glacialmente anche in Alpeis poiché è chiara la stretta continuità tra il film che ha sfiorato gli Academy e quello vincitore del Premio Osella a Venezia ’11, si tratta di una progressione tematica che espande i medesimi argomenti posti però al di fuori di un regime limitato, soprattutto territorialmente, come era la casa sepolcro imbiancato, ma i segnali di aggiornamento sono forti e tangibili: anche qui (e come in tutti e 3 i film) le persone non hanno nomi propri, il gruppo Alpeis (un po’ come i figli che si ritrovavano nei personaggi dei film americani [2]) decide di identificarsi con i nomi dei rilievi che costituiscono la catena montuosa, questo è il primo segnale di un’allarmante disidentificazione che ovviamente si mostra spettrale e funerea con l’attività della “società” laddove la sostituzione fisica con i deceduti porta i componenti della squadra, e in particolare l’infermiera, ad una frantumazione irreparabile del sé, una disgregazione identitaria generata da una multi-proiezione personale che li rende tutti e al contempo nessuno, perdizione in un dedalo a-cosciente dove il fine ultimo non è il denaro ma una sorta di feticismo mosso da quella che altro non è che un’ostinata ricerca di essere qualcuno. A sostegno di un upgrade contenutistico ci pensa la presenza di Aggeliki Papoulia, attrice che sia in Kynodontas che in Alpeis ha un ruolo centrale, quello di provare a sovvertire le costrizioni, tanto che possiamo vederla come un unico personaggio che una volta uscito da quel bagagliaio si è ritrovato in una realtà ugualmente caratterizzata da una struttura altamente coercitiva, e, come giustamente sottolinea Michele Sardone nel saggio Yorgos Lanthimos. Il phantasma della realtà [3], il gesto di ribellione (prima l’auto-asportazione del canino, dopo l’infrazione delle regole andando a letto con un ragazzo e vestendo finalmente i panni di… se stessa) “è autodistruttivo e destinato a fallire, ma il suo riproporsi sta lì ad attestarne l’ineluttabilità: un sistema che finisce per rivelare la sua natura di opprimente irrealtà si scontra inevitabilmente contro una forza (se pur minoritaria) di opposizione, che agisce al suo interno e che preme al di fuori di sé per liberarsi, a costo di sacrificare se stessa.” E non appare un caso allora che sulla tapparella che scende a coprire quella vetrata appena distrutta con una sedia, la ragazza scruti la sua ombra sulla superficie metallica, lei, sull’orlo della crisi definitiva che poco prima l’ha portata a sostituirsi perfino alla madre defunta, cerca il proprio riflesso ormai ridotto ad una macchia nebulosa e informe.  
Cosciente del fatto che lo spazio di intervento analitico va ben oltre il tema identità, il sottoscritto ha trovato confortante da parte di Lanthimos il prosieguo di una politica incentrata su tale questione, e se ad Alpeis manca la potenza epidermica del suo predecessore poco importa, così come non pesa il fatto che l’idea di una storia dove le persone morte vengono temporaneamente rimpiazzate da degli estranei appartenenti ad un’organizzazione era già stata proposta in termini molto ma molto simili da Sion Sono con Noriko’s Dinner Table (2005), perché in un mondo iper-saturo di letteralità un film che sgomenta per il suo ostinato distacco, che aliena i sentimenti, che elude i banali vincoli narrativi, è, oggi, obbligatoriamente da vedere.  ____
[1] In merito consiglio il recupero dei lavori di un altro autore contemporaneo come Bertrand Bonello che seppur concentrato sui ruoli strettamente filmici (attore vs. regista) ha improntato buona parte della sua carriera – se non proprio tutta – sulla natura di un Io in perenne conflitto, delineando figure smarrite in quelle che lui stesso ha definito opere-cervello.

[2]  È una costante quella di inserire riferimenti alla cinematografia “di massa” e più in generale alle icone hollywoodiane che in ambo i film diventano i modelli a cui agognare.  


[3]  Luigi Abiusi (a cura di), Registi fuori dagli scheRmi; CaratteriMobili 2012) 


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