Il muro d'Israele
scritto per Taxi Drivers
C’è una gabbietta per uccelli vuota, alla fine di Alsateh (Le toit) di Kamal Aljafari (2006), e tante, troppe televisioni accese. Un film politico (non può non essere “politico” un film ambientato in Palestina) ospite della rassegna CineMondo all’Accademia di Francia a Roma. Per noi reduci di Habemus Papam, la piacevole coincidenza di trovarci nella saletta intitolata al genio di Michel Piccoli ha compensato la lentezza di questa sorta di documentario sull’al-Nakba vista da Ramle, 69mila abitanti, già capitale del Jund Filasṭīn, uno dei cinque distretti della provincia di al-Shām (”Siria”) dell’impero islamico. Fu la città principale e la capitale della regione dalla sua nascita fino all’arrivo dei crociati nell’XI secolo. Poi la storia girò, fino agli inglesi e oggi agli israeliani.
Il protagonista è un giovane che esce dal carcere (era stato arrestato durante la prima intifada) e torna nella sua terra natale, la stessa dalla quale i nonni nel 1948 cercarono di scappare e rimasero invece, perchè costretti (e dalla forza del mare e dalla paura di non farcela). Nel frattempo la loro casa era stata distrutta, come molte altre abitazioni palestinesi durante “l’insediamento” ebraico. Un unico quartiere racchiude così oggi quella che era la Ramle araba, con case dove ogni piano ha qualcosa da raccontare, qualcosa di cui liberarsi. La noia è protagonista assoluta: non hanno nulla da fare gli abitanti palestinesi, che con occhi tristi mangiano, guardano la tv, mangiano, guardano la tv. C’è chi cerca lavoro, c’è chi un lavoro ce l’ha e se lo tiene stretto, con avidità. Ma la sensazione è che Aljafari abbia esagerato nel tentativo (lodevole) di far percepire a noi fortunati quanto il tempo non passi mai quando se hai un tetto oggi, domani potresti – per un “errore” di un gentile bulldozer israeliano – ritrovarti per strada, la casa squarciata a metà. Un tetto che diventa sinonimo di libertà ben più di quel cielo dove non vola niente, polveroso come le strade dell’antica capitale islamica.
Cercando di ricucire i frammenti della storia della sua famiglia, il giovane viaggia e dai brandelli di parete che si attaccano alle scarpe degli abitanti arabi di Ramle (in ogni vicolo, polvere e mattonelle distrutte) arriva fino al Muro quello con la M maiuscola: l’oscena barriera di protezione costruita dal governo israeliano, sorta di moloch di cemento che attraversa le vite dei palestinesi come un cuneo. La beffa della scoperta che la squadra di operai al lavoro nel punto dove passano il protagonista e la bella avvocatessa che lo accompagna è tutta composta da palestinesi non fa che accentuare una sensazione di impotenza, che chi conosce quei territori continua a provare quotidianamente. Tentativi di poesia nel mare di Beirut che un amico (ex carcerato con lui) gli fa sentire dal telefono, tentativi di fotografia nelle riprese in macchina, alla scoperta dell’inquietante nulla di quelle terre: per il resto, il film resta un sentiero noioso e abbastanza scontato.
(gv)