Ad un mese dalla conversione in legge del Decreto Giovannini (D.L, 28 giugno 2013, n. 76) è tempo di trarre alcune conclusioni su questo primo decreto del Governo in carica, importante modifica della Legge Fornero.
Un sicuro merito di quest'atto normativo è stato l'intervento sull'alternanza scuola-lavoro.
“Sul fatto che non ci sia nessun ponte tra scuola e lavoro in Italia, siamo pienamente d'accordo”, abbiamo scritto su Pro-Post@ Lavoro, e, per quanto si possa discutere su quale sia la priorità tra i due momenti, siamo anche d'accordo nel ritenere la formazione scolastica uno strumento fondamentale per la crescita dell'individuo sia come cittadino che come professionista.
In tempi più recenti, soprattutto da quando gli studi di Morin e Gardnersono arrivati anche in Italia, il dibattito sulla dialettica scuola-lavoro si è riacceso.
Separazione o avvicinamento? Al di là dei contrastanti punti di vista, il ritardo italiano su questo fronte è preoccupante. Rispetto ad altri paesi eruropei, come ricorda Alfonso Balsamo nell'ultimo Bollettino ADAPT riportando dati Ifsol, l'Italia si colloca all'ultimo posto per percentuale di studenti che sperimentano percorsi di alternanza tra scuola e lavoro: da noi il 3.7%, contro il 18% del Regno Unito ed il 22.7% della Germania. Se consideriamo poi i dati sulla disoccupazione giovanile (al 39,5% in Italia, al 5,4% per i Tedeschi), il confronto aggiunge validi argomenti a favore di uno sfruttamento più consistente dell'alternanza.
Il decreto Giovannini, in questa direzione, ha previsto un investimento ingente, si parla di 10,6 milioni di euro, per i tirocini formativi in scuole secondarie superiori e per tirocini curriculari all'università, investimento, però, forse ancora troppo timido rispetto alle dimensioni del fenomeno: in concreto l'università potrà attribuire al tirocinante un rimborso spese, tenuto anche conto del reddito familiare, di soli 200€, che possono arrivare a 400€ se cofinanziato dal soggetto ospitante.
Si aprono due problematiche, quindi: in primo luogo ad essere beneficiati sarebbero solo gli studenti di corsi che prevedono un tirocinio curriculare obbligatorio, quindi quelli di facoltà tecnico-scientifiche, per i quali già ora le prospettive di lavoro sono più favorevoli; e d'altra parte il cofinanziamento, inquadrato come un obbligo, grava il soggetto ospitante di un onere irragionevole, scoraggiando le imprese dal mettere a disposizione risorse e strutture per i tirocinanti.
Come già successo con la riforma Fornero, che, come da molti commentato, è intervenuta troppo cautamente sull'apprendistato, così anche il Decreto Giovannini rischia di rimanere un'ammirevole rassegna di buoni propositi senza risvolti concreti. Del resto, il Ministero dell'Istruzione e della Ricerca non ha ancora previsto alcun Decreto Ministeriale attuativo sui tirocini curriculari.
Prima di una riforma legislativa, allora, è di una nuova impostazione culturale che l'Italia avrebbe bisogno.
Sono ancora poche in Italia le organizzazioni che operano per la salvaguardia della cultura industriale, persino in un periodo critico come quello che stiamo vivendo, in cui la promozione ed il sostegno di iniziative rivolte a favorire il contatto tra ricerca e impresa e tra la formazione ed il mondo produttivo potrebbero portare notevoli benefici sia sul versante formativo che su quello occupazionale.
Attendiamo dunque una nuova spinta a sperimentare, sia da parte degli studenti che da parte dei nostri legislatori perché, è la storia che ce lo insegna, continuare sulla strada delle mezze riforme non ci porterà ad alcun progresso.