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In attesa di "Win Win", in uscita a luglio nel nostro paese, ecco a voi "The Station Agent", primo film di Thomas McCarthy.
"The station agent" è una particella minuscola, un piccolo ma incisivo sguardo sulla periferia americana, sulle grandi case immerse nei giardini come organi in un corpo, sulle stazioni diroccate che sembrano uscire da un film western dell'epoca del bianco e nero. Non ha nulla di entusiasmante, nulla di avvilente. La storia di Finbar McBriden (interpretato da un attore di prima classe, Peter Dinklage, oggi protagonista del serial "Game of Thrones"), ruvido uomo affetto da nanismo, è inserita perfettamente in un discorso narrativo in cui è difficile distinguere del tutto il dramma dalla commedia, attingendo ad una joie de vivre (e di sopravvivere) che non riguarda solo la sua persona, ma anche quelle che la circondano, come la depressa Olivia Harris (e solo Patricia Clarkson poteva essere tanto perfetta per un ruolo ambivalente, tra estrema vitalità e momenti di sofferenza interiore), il logorroico venditore di hot dog con padre ammalato Joe Oramas (Bobby Cannavale, un abitudinario per il regista) e la gioiosa e problematica Michelle Williams, bibliotecaria. In tutto l'arco del film la sofferenza di chi vive situazioni di disagio è accompagnata dalla continua capacità di afferrare una ragione di vita, un guizzo prolungato di felicità, magari nelle amicizie reciproche, di quelle nate quasi per disperazione e che diventano perfette possibilità di dare una svolta. La cosa che più colpisce dell'opera è la cura certosina per i dettagli della personalità (il clichè è solo incidentale, come nel caso dell'impiccione latino), per le armonie dell'ensamble, per la normalità con cui viene affrontata la situazione, per il tono dimesso ma accattivante. Il regista, che seguirà, in modo diverso, questa volontà di rappresentazione ai margini nel successivo "The visitor" con Roger Deakins, riesce a definire umori dei suoi characters e a sprigionarli all'esterno, allo spettatore. La cosa buffa è che chi guarda resta così coinvolto dalla normalità della situazione da divenirne parte interna, come se egli stesso fosse un personaggio, inserendosi nel contesto al pari di un amico fidato. E' la normalità del cinema, la sottrazione della narrazione coatta e mirata, e, perciò, si avvicina molto alla vita. Ed è emotivamente trascinante, vicina, senza bisogno di enfasi o di caratterizzazioni spicciole.
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