di Nadia Agustoni
“Amazon: lavoro e controllo dei dipendenti. La partita infinita”
Il vecchio padrone delle ferriere lo pensavamo estinto, ma ecco che vivono le sue metastasi. Sappiamo che il cancro è una carogna e spesso quando uno crede di esserne guarito arriva la brutta notizia di altre cellule maligne. Se al nazi-fascismo associavamo solo i nostalgici, ora abbiamo la certezza che invece ha un nuovo vigore e indossa capi d’abbigliamento Thor Steinar. Sotto le feste di Natale gruppi di guardie private, ingaggiate da Amazon tra adepti neonazisti, hanno controllato in modo vistoso e politicamente sporco i lavoratori migranti nei magazzini del gruppo in Germania, usando intimidazioni e metodi in stile: “obbedire, credere… lavorare”.
da eunews.it
La denuncia non ha smosso più di tanto i dirigenti di Amazon, ma ha indignato i clienti, gente come noi, che a chi lavora pensa siano dovuti dei diritti sindacali. Di fatto il diritto è subordinato alla forza; se non si è forti abbastanza da ottenerne il rispetto, non c’è legge che protegga. L’isolamento dei lavoratori e la contrattazione individuale hanno messo il singolo di fronte a un sistema che dispone di tutta la forza per dettare le sue regole e imporle. Da questo discende il trattamento che molti subiscono nelle aziende, sempre più simili a un carcere, con regole assurde e punitive. La presenza di guardie armate a scopo di sorveglianza, di solito associata al monitoraggio dei locali, sia esterno che interno, non è raro serva per un subdolo uso intimidatorio. Anni fa, quando lavoravo per uno dei grandi poligrafici in Lombardia, all’uscita, mentre passavamo per il metal detector, era facile trovarsi di fronte a una guardia giurata con la mano sulla pistola. Presente anche un direttore, in certi casi. La scena, volta a scoraggiare furti di attrezzi e agendine (lì si stampava la mitica Smemoranda) ci lasciava allibiti, ma silenziosi, perché nessuno aveva un contratto che andasse al di là di poche settimane.
Il mondo del lavoro è da oltre quindici anni in mano al caporalato delle agenzie interinali. Chi cerca una collocazione e passa attraverso questi canali obbligati, sa cosa vuol dire essere mandati da un posto all’altro anche per pochi giorni, a volte nei supermercati per poche ore. La protesta, per qualunque motivo, è quasi nulla, perché il rischio è che l’agenzia non richiami. Così si arriva al servaggio, a pensare il tempo (e se stessi, pian piano) come a una scadenza. Avendo avuto modo, in un anno e mezzo di “soluzione” interinale, di farmi le ossa e una certa esperienza nelle mansioni più varie, e siccome uno di questi impieghi era per un’agenzia di guardie giurate, dove ero collocata in un locale in cui le banconote vengono pulite e contate, qualcosa sulla mentalità dei controllori l’ho capito. Non mi sono stupita, quando un’amica mi ha raccontato di avere visto una certa scenetta davanti al cancello di quell’agenzia di guardie, con tanto di braccio teso nel saluto fascista davanti alla telecamera che permette l’identificazione e canto di “Faccetta nera”. È un modo di riconoscersi, di aderire a qualcosa di politico, identificato con una funzione: la sorveglianza. Vi saltasse in mente in un luogo come questo di fischiettare, non dico “Addio Lugano bella”, ma De Andrè o Guccini, non credo salirebbero le chance di avere un contratto a lungo termine.
La questione della sorveglianza sempre più estesa in certi ambienti è intrecciata col controllo di lavoratori che non hanno più diritti sindacali, né associazioni di riferimento. Così in punti strategici, appaiono nelle fabbriche le telecamere, che teoricamente si accendono solo dopo l’orario ufficiale, ma di fatto sono in funzione ben prima. L’idea di controllo quindi è imposta in modo soft, mentre si fa strada l’idea di stare in una situazione a parte rispetto alla società civile. Lo si nota da particolari secondari, ma nello stesso tempo chiari nel segnalare le forme del disagio. La scena tipica, quando un contratto scade e non viene rinnovato, è vedere chi resta abbassare la testa per non guardare chi sta uscendo a fine turno. Il non riuscire a guardare è significativo per la sottomissione che indica e per l’interiorizzazione di una sconfitta in partenza, senza lotta. La stessa scena è molto più frequente quando qualcuno è trattato male e non può rispondere.
In Germania, i dipendenti sottoposti alle vessazioni dei neonazisti e sorvegliati per conto di Amazon, erano per lo più provenienti dalla Spagna o da paesi del sud Europa dove la crisi ha colpito in modo pesante. Quindi il dato meramente razzista è superato da quello di classe. I nuovi poveri come i poveri di ieri sono alle prese con un’epoca che li rifiuta, ma non rifiuta di adoperarli per lavori mal pagati, poco sani e precari.
da direttanews.it
Amazon per molti è un mito, un modo di spendere bene i propri soldi. È un marchio, un significato di per sé. Aggiungete a tutto questo le denunce dei lavoratori immigrati in Germania e di quelli della sede in Pennsylvania, dove i fatti sono stati portati alla conoscenza del pubblico in modo più circostanziato, e provate a descrivere una partita dove i colossi o i pesi massimi hanno di fronte gente che pensa solo a fare bene le cose perché illusa che da quello verrà valutato il suo diritto a un futuro. Ebbene, questa partita non vi sembra truccata?
Lo è, ma la dirigenza di Amazon lo negherebbe, e lo negano allo stesso modo le cooperative varie che sfruttano finti soci, in realtà manovalanza usa e getta, e lo negano i padroncini di destra e di sinistra che infondono nelle loro attività lo stesso spirito.
Simone Weil teorizzava un’alleanza tra classe padronale e classe operaia, dove la collaborazione avrebbe mitigato la disumanità insista nel modello industriale. Eppure vediamo ormai realizzata la fattiva collaborazione dei dipendenti, senza riscontri di riconoscimento reale da parte delle aziende. Quello che lo impedisce non è solo l’avidità, è una concezione della vita, se preferiamo dell’esistente, che, a partire da come pensiamo il tempo, ci ingloba in qualcosa di meccanico. L’esperienza stessa delle banche del tempo non si sottrae alla confusione generata da un modo di intendere il nostro esserci come un “dare” il proprio tempo, e quindi delle risorse. Chi non può dare non è più contato, e nosocomi e istituti vari consumano i resti di queste persone fino a quando e se le loro pensioni lo permettono.
Quindi è il modello produttivo che investe tutto e distrugge ogni altra possibilità.
Noi non siamo in quanto portatori di singolarità, con storia personale, ideali, pensieri ecc. ma siamo tempo, tempo di lavoro e attività, produttivi sempre.
La produzione ha ingoiato il mondo, lo consuma a ritmi vorticosi, diventa nei fondamentalismi produttività di corpi, esplosione demografica, per superare numericamente altre culture e quindi arrivare a dominarle. Tutto questo è consumismo, ma consumato è il potere di pensare, e il pensare veramente critico estirpa errori ed orrori, per riportare al centro l’umano, non come mero dato biologico, ma come una qualità e una possibilità di relazione, intelligenza, affetti e capacità che non devono sottostare alle leggi del necessario, che sconteremo completamente quando necessari non saremo più.