Amen

Creato il 22 dicembre 2012 da Eraserhead
Si sente molto che Amen (2011), diciassettesimo film di Kim Ki-duk, viene subito dopo Arirang (2011); la continuità non è fornita soltanto dalla contemporaneità delle due opere (ed è plausibile che Amen sia stato girato poco prima o poco dopo la partecipazione del regista a Cannes nel maggio del 2011), piuttosto dal substrato solipsistico posto alla base del film. Per fortuna, dice il sottoscritto, Kim non si abbandona più ai piagnistei di fronte alla propria videocamera che avevano reso il lavoro precedente un lungo singhiozzio tendente al ridicolo, qui emerge con maggior tatto l’evidente ricerca del sé registico smarrito dai tempi dell’infausto Dream (2008), una ricerca che spostandosi gradatamente dal documentario, territorio sconosciuto al coreano prima di Arirang, alla finzione, e il punto di arrivo con automatica ripartenza sarà Pietà (2012), sosta inquieta in Amen, film ibridato da questi due estremi, ridotto ai minimi termini in fatto di troupe (assente) e trama (praticamente idem), che girovaga vagabondo tra la Francia e l’Italia (non per niente due paesi che hanno sempre avuto un occhio di riguardo per Ki-duk), che diventa a tratti un “filmino vacanziero” seguendo la ragazza in mezzo alle folle di turisti e al loro vociare, ma che comunque non perde mai di vista l’attività venatoria che Kim opera nei suoi stessi confronti.
Bisogna “solo” capire quanto e come il tentativo di superare l’impasse artistica da parte di Kim risulti strutturato, cavo, pieno, pensato, riuscito. Appurata (fortunatamente) l’assenza di quella fastidiosa autocommiserazione che impregnava Arirang, il Kim di questo film ritorna a fare ciò per cui è diventato famoso: fa cinema, certamente con mezzi spartani ed iper-economici (probabilmente una camera digitale e tanto olio di gomito), ottenendo un risultato che non si può definire privo di incertezze, tutte derivanti dalla modestia globale dell’opera, soprattutto per ciò che concerne il comparto tecnico dove l’audio, forse ulteriormente manipolato in fase di montaggio, è di bassa qualità e si esprime in un minestrone acustico-urbano di dubbia piacevolezza, inoltre, giusto per rimarcare il tentativo di riappropriazione dello status di Regista, Kim lascia intravedere ciò che normalmente non si vede, scopre leggermente i meccanismi ed allora eccolo col braccio teso con cui stringe l’attrezzo mentre corre e si riprende frontalmente, oppure eccolo lasciarsi volutamente sfuggire l’ombra sul terreno che disegna con chiarezza la sagoma di un uomo che filma. Questi passaggi anche se si iscrivono nelle ambizioni del regista nato a Bonghwa non mettono a tacere una certa, avvertibile e voluta (quindi fastidiosa), ingenuità.
Poi se aggrada c’è anche un filo tramico che sebbene lievissimo coagula la breve durata di Amen; i dialoghi sono inesistenti, viene giocata la carta della ripetizione (non senza risultare un goccio stucchevole) e del tenue mosaico di questa giovane donna si carpiscono i frammenti: c’è la ricerca di un qualcuno (parallelo dell’intento personale di Kim?), c’è una gravidanza, c’è una misteriosa figura maschile con tanto di maschera antigas che segue la protagonista, ci sono rapide e non troppo chiarificatrici interazioni tra i due e ci sono dettagli religiosi immortalati di sovente (ed è interessante notare come la resurrezione kimmiana si sia affidata ad icone cristiane), ma l’impressione è che tutto ciò conti poco per un Ki-duk assolutamente concentrato a riprendere le redini del ruolo professionale, il parto sarà più completo (senza estirpazione di capelli) con Pietà, qui è una roba for fans only, ma la domanda è: per Kim ce ne sono ancora di ammiratori?

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