di Rina Brundu. " Penso che stavo raccontando... di come sta diventando sempre più difficile condurre un'esistenza autentica, quando viviamo in un mondo che sembra puntare i riflettori sull'apparenza. [...] Si vedono così tante persone che si sforzano di vivere una vita costruita e quando poi raggiungono il loro obiettivo si chiedono perché non sono felici. Non mi resi conto di tutto ciò quando mi sedetti a scrivere [American Beauty], ma questi concetti sono importanti per me". Così parlò Alan Ball a proposito del suo lavoro di sceneggiatura del film "American Beauty" (1999) diretto da Sam Mendes, un lavoro che gli procurò l'Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale.
Mi colpisce il fatto che, alla maniera del copione di "American Beauty", anche questa dichiarazione del suo sceneggiatore abbia molteplici chiavi di lettura, come avviene per ogni scrittura che vale. Non mi sorprende quindi che "American Beauty" sia uno di quei rari film dove si può apprezzare con maggiore facilità il momento dell'ideale passaggio del testimone dalla grande letteratura al grande cinema come strumento primo per raccontare un'epoca. È indubbio infatti che il nostro mondo verrà raccontato ai posteri dal nostro grande cinema ed è indubbio - da qualche decennio ormai - che la grande letteratura sia morta, dipartita per motivazioni plurime; forse anche un po' finita, senza apparente cenno di rimorso, proprio da questa sua arte rivale.
Ma è solo di "American Beauty" che voglio parlare in questa occasione. Di una produzione che è un inno alla bellezza e che di quella bellezza fa sostanza ed epidermide. C'è qualcosa di meraviglioso in quella sorta di "Ballo della busta di plastica nel vento", momento filmato e rubato a madre-natura da uno dei characters-protagonisti, eroe, antieroe antipatico ma ahimè fastidiosamente credibile; e c'è qualcosa di straordinario all-along in tutto il macrotesto di questa splendida pellicola, il quale macrotesto si risolve in una miscela riuscitissima di capacità scritturale a tutto tondo e di grande arte registica. Una miscela che genera catarsi che è vero e proprio rapimento dei sensi, che è capacità di portarci in un altro luogo e in un altro tempo, che è tutti i tempi, che è costrizione ad interrogarci sulla nostra e sulle altrui vite, sul loro valore, sul loro target e dulcis in fundo sul sempre troppo bistrattato tema della felicità.
Nella mia visione delle cose bellezza e felicità sono i due ragionamenti portanti dentro questo lavoro-che-è-sostanza e ciò che stupisce è come sia Ball che Mendes siano riusciti a trattare queste tematiche dotandole di una forte impressione filosofica e senza mai scadere; senza lasciare mai che la retorica spicciola prenda il sopravvento, senza lasciare mai che lo "scontato", il tratto-cheap si impongano, senza farsi mai "spaventare", senza retrocedere, proprio come fanno gli artisti che sono davvero tali.
"American Beauty" è dunque uno di quei film dove raccontare la trama non serve a niente. Come un favoloso romanzo classico e senza tempo parla di tutte le storie e di nessuna storia, propone i mali di tutte le epoche e di nessuna epoca, ricorda le vicende di tutte le vite e di nessuna vita. Il film, alla maniera di un universo quantistico, semplicemente è!
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Da Youtube il link allo straordinario spezzone del "Ballo della busta di platica".
Featured image, screenshot dal film.