La stangata di David O. Russell
Non il miglior prodotto firmato David O. Russell, American Hustle (2013) conferma la capacità del regista di donare alle sue pellicole un’impronta corale riconoscibile; tuttavia questa volta è la truffa che non fila.
Irving Rosenfeld è un piccolo truffatore, che per anni ha guadagnato sulle spalle di piccoli investitori, che gli corrispondono piccole cifre in cambio di una promessa di guadagno nettamente maggiore. Incastrato, insieme alla socia e compagna Sydney Prosser, dall’agente dell’FBI Richie DiMaso, Irving viene costretto a imbastire una truffa ai danni di politici corrotti e mafiosi.
Lungamente atteso, American Hustle prende ispirazione dallo scandalo ABSCAM del 1978, rifiuta ogni realismo storico e preferisce gettarsi a capofitto nel grottesco (tra parrucche inverosimili e vestiti esagerati) per raccontare una vicenda, che evidenzia relazioni a catena, ambiguità, istinti di sopravvivenza e rapporti sentimentali. E tutto ciò funziona perché la coralità recitativa è un elemento che caratterizza le pellicole di David O. Russell, una cifra stilistica – poetica riconoscibile e godibile. Tuttavia quello che non regge è l’espediente narrativo, che vive di un numero eccessivo di ellissi temporali e di una truffa affrontata debolmente. Eppure American Hustle cattura l’attenzione fino alla conclusione e grande merito va all’apporto interpretativo di Christian Bale, Amy Adams, Bradley Cooper, Jennifer Lawrence e Jeremy Renner, attori in grado di trasferire sullo schermo cinematografico delle grandi caratterizzazioni, che oscillano tra amore, ossessione, ambizione e inganno.
American Hustle è tutto qui, ma anche altro. Perché Russell sa girare e ne sono la prova la macchina da presa oppressiva (che studia i volti dei protagonisti), la fotografia sporca e aderente al periodo storico, l’intenso lavoro sulla musica di contorno e la costruzione dei rapporti umani, contraddistinti da un brillante lavoro sui dialoghi. E come non dimenticare il trasformismo di Christian Bale, che dopo essere dimagrito inverosimilmente per The Fighter (2010) è, in modo altrettanto sconvolgente, ingrassato per entrare nella parte di Irving, un “furbetto di quartiere”, che si trova in una situazione sconveniente: una lotta a colpi di mazzette tra FBI e politica.
Dall’impianto travolgente e accattivante, ma che ostenta troppi alti e bassi, American Hustle è sicuramente una pellicola da vedere e ammirare, perché Russell si conferma uno dei registi più interessanti del panorama statunitense. Tuttavia in quest’ultimo prodotto la vicenda principale è labile, lievemente complessa e non produce l’effetto sorpresa tanto sperato. Ma trattandosi (palesemente) di un espediente narrativo per evidenziare i rapporti tra i protagonisti e sottolinearne le bugie, che fanno stare in piedi (o fanno crollare) rapporti interpersonali, si può perdonare l’autore. Difatti sono la fragilità, l’ambiguità, la frustrazione e le debolezze di ognuno al centro di tutto. Ed è proprio per questo motivo che American Hustle assume un’accezione diversa (e più profonda) della pura e semplice storia di inganni e apparenze. E tutto ciò è sicuramente apprezzabile.
Uscita al cinema: 1 gennaio 2014
Voto: ***1/2