Casualità: Mendes, ex marito di una delle mie attrici preferite in assoluto, Kate Winslett, è anche il regista di Era mio padre, visto in tv lunedì sera. Nonché di due film tra i più belli che abbia mai visto, American beauty e Revolutionary Road.
E' come se, lui inglese di origini portoghesi (ecco spiegato il cognome che termina in esse), Mendes fosse ossessionato dallo stile di vita americano, di cui sta esplorando la storia in vari passaggi (gli anni Cinquanta, la guerra del golfo, il Proibizionismo, l'oggi).
In questo caso ha avuto il supporto di uno tra i più creativi scrittori statunitensi del momento: la sceneggiatura, dichiaratamente autobiografica, di American life (Away we go, Usa 2009, di Sam Mendes) è infatti di Dave Eggers e della moglie Vendela Vida.
Ora, io mentirei se dicessi di aver mai letto un libro di Eggers, e insomma, se uno apre un blog anonimo può se non altro permettersi il lusso di dire quasi sempre la verità. E la verità è che di Dave Eggers non ho mai letto una riga, ma che non ignoro la sua importanza nel panorama intellettuale americano. Nato nel 1970, è diventato famoso nel mondo per L'opera struggente di un formidabile genio. Molti lo detestano, altri lo amano per il suo stile iperrealista (lo si ascrive alla corrente detta Realismo isterico, che non ho mai capito bene cosa sia ma se volete farvi un'idea se ne parla qui.
Scrive molto, anche su riviste, e il suo pensiero sulla politica, l'attualità etc. arriva spesso anche da noi. Collabora con il cinema da anni, sua è anche la sceneggiatura di Nel paese delle creature selvagge, che non ho visto.
Tutto ciò per dire che il film mi è piaciuto moltissimo. Molto meno drammatico di Revolutionary road, che risentiva ovviamente del pessimismo antropologico di Yates, American life vuole essere un inno alla vita, alla famiglia e al buonsenso (capirete cosa intendo proseguendo) quando tutto attorno a te cospira per angosciarti o farti dubitare del senso della vita.
La coppia di lavoratori intellettuali ma precari formata da Burt (John Krasinski) e Verona (maya Rudolph) attende un figlio. La storia è imperniata sul loro viaggio on the road, dalla California all'Arizona, dalla Florida al Canada, visitando parenti e amici e cercando la città ideale in cui stabilirsi e dare una vita serena alla loro creatura.
Non troveranno niente di soddisfacente: a parte la sorella di Verona, che condivide con lei il rimpianto per i genitori morti troppo presto, le altre figure del film sono un campionario di mostri, dai genitori di Burt (immaturi; lui è Jeff Daniels) ai vecchi amici di Verona (volgari e orribili), agli amici canadesi di Burt (solo apparentemente felici), alla quasi-cugina di Burt (una terrificante stronza new age magnificamente interpretata da Maggie Gyllenhaal), al fratello di Burt appena abbandonato dalla moglie.
Con un neorealismo temperato di ironia, poca azione ma comica (mitica la scena del passeggino), paesaggi struggenti e dialoghi spesso rivelatori, il film scorre pacato nel solco dei vari Clerks, Little Miss Sunshine, Magnolia, Sideways, inserendo come nota di grande originalità una visione personalissima della coppia.
Verona non è particolarmente bella; Burt è un mezzo nerd barbuto e confusionario che guarda le tette di ogni altra donna, e la sua più grande paura è che dopo il parto il petto della sua compagna non sia più quello di prima. Ma si vogliono bene, sono sinceri l'uno con l'altro, si divertono assieme, si rispettano e si trattano bene. Vi pare poco?
Eppure nessuno dei loro assurdi amici e parenti, in questa America del XXI secolo, capisce perché Verona pur amando e stimando Burt non lo voglia sposare; nemmeno lui, che è un insicuro. Negli Stati Uniti sembra che tuttora sposarsi, contrattare, mettere nero su bianco (possibilmente con accordo prematrimoniale) la propria volontà nuziale sia l'unico modo decente per dare espressione all'amore.
Mentre la scena pre-finale in cui, sul materassino per saltare, i due si fanno promesse paramatrimoniali e molto realistiche, è una delle più romantiche e commoventi che abbia mai visto.
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