Prendo spunto da due degli ultimi film che ho visto al cinema di cui voglio parlare. Cercherò di costruire un’analisi che connette i due lavori nonostante la diversità distinta dei due registi nella elaborazione dei loro linguaggi.
American Sniper di Clint Eastwood non mi ha fatto impazzire. Si è talmente abituati a contesti di guerra e al loro ascolto televisivo che ormai quei suoni, modi e metodi, sono diventati parte del nostro immaginario collettivo, tanto da annullare qualsiasi cosa venga aggiunta poiché ripetitiva. Mi dissocio dalle posizioni di questa pellicola poiché il messaggio dichiarato è intelligente, offre una lettura che rappresenta un punto di vista pro – America, che io non appoggio, e forse neppure un comune individuo europeo potrebbe convalidare. Sono d’accordo con un ragazzo che ho incrociato a un pub la sera stessa, un cameriere di quelli belli che ti fai amico dopo tre secondi perché ti lascia la sua idea senza troppa difficoltà, quello con il quale condivideresti un panino con l’olio in caso di necessità, poiché tanto puro e semplice; lui parlava proprio di visione orgasmica di un cittadino americano alla visione di questo progetto. Appoggio questo pensiero nella sua totalità: sono convinta che il messaggio sia interpretato in una maniera erronea, non da tutti, ma da esaltati nazionalisti, purtroppo sì, ecco perché potrebbe fallire l’intera idea rispetto ad altri prodotti di Eastwood nonostante il successo che sta ottenendo al botteghino.
Girl Gone. L’amore bugiardo di David Fincher, a differenza del primo descritto, mi è piaciuto abbastanza, soprattutto per la descrizione della tensione che si attiva nei cambi di scenario. E’ un thriller che mi ha sconvolto, tanto da tornare a casa senza parole per tutto il tragitto.
Ho cercato per diversi giorni dei motivi per i quali questi due lavori mi avessero colpito, affascinato e spinto ad andare a vederli. Del primo sicuramente l’uso della comunicazione: Eastwood in prove precedenti ha sempre inserito dei punti di vista sull’uso strumentale che se ne fa, ci ha indotto spesso a riflettere – e capire – come loro sono sfruttati. Anche qui: televisione, droni e altri elementi non possono essere sottovalutati.
In Fincher, invece, rimane lo stimolo feroce della psicologia dei personaggi a sostenere il disagio di uno spettatore incallito.
In entrambe le storie, alla base degli incomodi, esiste la propria condizione di crescita dettata dai genitori. Questo post non è certo un luogo di analisi, dove si vogliono mostrare o psicoanalizzare gli ambiti di intervento, ma è inevitabile parlare delle attrattive dettate dalla nostra psiche inerente ai nostri modelli di condizionamento.
Nel caso di American Sniper si evince in maniera netta: il padre dispotico che non offre amore, ma violenza; una forma di protezione non legata all’anima, quanto una visione più che umana è da branco. Esistono una preda e un cacciatore, l’importante è non abbandonare mai l’arma per una propria difesa.
Il protagonista rimane fedele alle sue attività fino a quando non si rende conto che la sua vita è ben altro. Eastwood ha la capacità di mostrare la perdita e l’accettazione di questo conflitto personale nel momento in cui Bradley Cooper – l’attore protagonista – nel mezzo di un attacco, nel cuore di una tempesta di sabbia, abbandona, anzi perde, la bibbia – simbolo di un legame infantile con il suo passato, ma punti di partenza per ricostruirsi una nuova condizione vitale attraverso quegli stessi strumenti che gli hanno dato notorietà in battaglia. La storia è basata su un fatto vero: un soldato americano parte in difesa della propria nazione, torna, trova pace con se stesso, ma chi lo ammazzerà è un reduce, figlio della sua stessa terra che tanto aveva difeso.
Le colpe dei padri cadono sempre sui figli, non lo doveva dire Eastwood, lo sapevamo già. E’ solo una storia che si ripete. Il vantaggio di questo film è proprio in questo, nel dimostrare, in modo lineare una posizione che non si afferra immediatamente.
Non c’è l’iniziazione a un mondo adulto ma una presa di coscienza matura, secondo la quale a ogni azione errata compiuta ne tornerà una indietro del tuo identico valore.
Nel caso di Girl Gone, i protagonisti sono due – un maschio e una femmina – accomunati da una stessa professione. Entrambi scrittori di successo desiderosi di essere esclusivi in tutte le loro manifestazioni di vita quotidiana. Lui figlio gemello di una comune donna onesta che impronta la verità come risolutrice di ogni problema; lei figlia di due genitori macchina, onnipresenti, che creano una bambina mostro– poi adulta – vittima del suo stesso personaggio. Questo sembra dirci Fincher nella costruzione della psicologia di quest’ultima. Abituata a scrivere sempre di un alter ego buono e perfetto, manifesta la sua vera natura nell’atto dell’innamoramento quando si vede tradita dall’azione compiuta di un marito annoiato, fallito che la tradisce e la costringe ad abbandonare New York per un’area più sperduta statunitense in nome di sua madre. E’ il bisogno di vendetta a covare e crescere in tutta la durata del film, ma questo non si comprende poiché gli scatti, i balzi, le inquadrature, sono pensate e montante talmente bene da non riuscire a capire subito il movente reale di queste azioni.
A tutte noi – mi riferisco proprio alle donne – è capitato di incrociare un uomo in modalità standard. Quattro chiacchiere per ammorbare una donna, conquistarla, farla sua e poi lasciarla. Non è quindi questo a essere fastidioso, quanto l’osservare che le loro azioni di conquista siamo sempre le stesse, scontate e ripetitive, che fanno sentire la preda alle stelle, ma quando si vede questa realtà ripetuta in uno schema unico e seriale, fa girare le scatole.
Ognuno di noi pensa che l’altro ci abbia amato in maniera unica, invece no. Fincher racconta tutto questo amplificando il ruolo femminile portandolo al limite, al manipolatorio narcisistico, sviscerando l’umano, lasciandolo crescere e maturare in una macchinazione perpetua.
Consigliati, il secondo più del primo
Ps: ci sarebbero ancora tante cose da dire, ma credo di essermi dilungata troppo.
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