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Amici miei. Riflessioni sul valore dell’amicizia a Palermo

Creato il 12 marzo 2013 da Abattoir

di

di Fabio Ceraulo

Amici miei. Riflessioni sul valore dell’amicizia a PalermoChi trova un amico trova un tesoro. Probabilmente questa è la frase più banale che si possa proferire riferendosi a quello che forse è il sentimento più importante che lega le persone le une alle altre.
Ci sono valori come la famiglia o l’amore, è vero. Ma da sempre l’amicizia è considerata elemento fondamentale per l’essere umano.

A Palermo questo concetto di amicizia, poi, è più radicato che mai.
Si è circondati di amici. Si vive di continue scoperte “amichevoli”.
Spesso ci si imbatte addirittura in amici che nemmeno si conoscono.
Può sembrare sciocchezza ma è assolutamente così.

Gli amici ti servono, di continuo, per qualsiasi espressione della giornata, per qualsiasi necessità della vita.
Anche, per esempio, se devi semplicemente andare a comprare il pane. Un gesto ordinario e quotidiano. Se non sei amico del panettiere, rischi di avere pane sfornato tre-quattro ore prima e non quello caldissimo, uscito dai forni da cinque minuti. 
Perché l’amico merita un trattamento sempre speciale e particolare.
Anche dal distributore di benzina. Il benzinaio amico non ti metterà mai nell’automobile la benzina allungata con l’acqua. Ti fornirà, cosa riservata agli amici, nientemeno che quella “buona”. Non costringendoti poi ad andare dall’amico meccanico che come trattamento di favore (proprio perché sei amico) ti farà pagare solo il lavoro effettivamente svolto e non quello che viene effettuato per i “non amici”.
I “non amici” non hanno a che fare con i nemici, comunque. Per quelli pane duro e benzina annacquata a volontà.

Mi capitò una volta di intrattenermi a discutere con un ragazzo del mio quartiere. Una di quelle conoscenze che ti trascini per anni non considerandola, tuttavia, amicizia. Ebbene, qualcuno notò che dialogavo con lui. Quando andai a giocare una schedina, qualche minuto dopo, alla solita ricevitoria, mi fecero cenno di passare avanti e giocai subito il mio talloncino scavalcando una bella fila di gente.
Ringraziai ma allo stesso tempo non capii.
Era soltanto il fatto che mi avessero considerato “amico” di quel tipo con cui ero stato visto colloquiare. Per tutti era mio amico e pure intimo. Per me era poco più che un conoscente. Una amicizia utile, tutto sommato, anche se venni a scoprire il motivo in seguito: il tipo era una specie di poco di buono e perciò rispettato e temuto.

Facendo qualche calcolo, decisi di cambiare ricevitoria. Era meglio. Meglio amici pochi ma buoni che amici “poco di buono”…

Andavo quindi controcorrente rispetto alla normalità. Ero considerato da me stesso un trasgressivo. Un punk. Ma l’amicizia imperversava comunque e dovunque. “Ti serve un chiodo? Vai dall’amico mio ferramenta e digli che ti ho mandato io”. Anche se fosse a quaranta chilometri di distanza, bisognerebbe far prevalere il nobile sentimento. Il fatto di mandare poi è una priorità. A Palermo non vai da solo a comprare i chiodi. Sei mandato. Insomma spedito, inviato. È una lettera di presentazione. Se non lo fai presente non avrai mai i chiodi che ti meriti. Magari rischi di acquistare dei chiodi di gommapiuma. Oppure, con un senso ancora più affettuoso e possessivo, devi rivolgerti al commerciante dicendo che “appartieni” all’amico che ti ha segnalato. E poi si ottiene il famigerato e anelato sconto, cosa riservata solo agli amici.

“A chi appartieni?” È una frase ricorrente, giornaliera, quasi noiosa. Sei proprietà privata di qualcuno ma nemmeno lo sapevi. Si appartiene sempre ad una persona che ti è amica anche se non sai nemmeno chi è. Oppure può capitare di sentirsi dire “Vacci a nome mio”. Per un periodo ho creduto che “a nome mio” si scrivesse tutto attaccato: “Annomemìo”.
Sembrava una sostanza chimica di quelle che troviamo nelle descrizioni dei farmaci. “Contiene Nimesulene, Amoxicillina e Annomemìo”.
Insomma, per comprare un chiodo c’è bisogno della raccomandazione.
E poi, se sei contento dell’acquisto, è giusto che si faccia rapporto all’amico mittente. Devi essere rimasto per forza soddisfatto. Guai, se no si offende. “Grazie per avermi indicato quella ferramenta in provincia! Ho speso cinquanta euro di benzina per arrivarci ma ne valeva la pena! Il chiodo era fenomenale! Mi ha fatto pure lo sconto! Ci tornerò di nuovo e molto presto!”. Una bella collezione di chiodi in casa serve sempre. Ti fa fare bella figura. È motivo di orgoglio e spunto di discussione. Così l’amico è contento e il negoziante pure.
A Palermo per comprare un chiodo, o altro, si possono anche spendere cifre iperboliche ma sempre in nome dell’amicizia.
Che poi vale anche per tutto il resto.
Sanità, amministrazione pubblica, politica, burocrazie varie. Con l’amico che ti manda puoi avere una radiografia in pochi minuti anziché attendere mesi. Te la fanno espressa, subito, di corsa. Magari anche se non la desideri. Insistono pure. È amicizia.
Negli uffici pubblici in pochi secondi hai un certificato caldo e fragrante. Senza amicizia rischi di averlo freddo e stagionato. Magari nemmeno tuo. È amicizia.
Il politico in genere è sempre amico. In periodo di elezioni. In altri periodi in effetti non si sa bene cosa sia. Sicuramente non è amico. Non ti manda da nessuna parte se non a fare in….
L’amicizia è tutto.
Tanto vale sfruttarla. O no?

Prendo le mosse da queste riflessioni di Fabio per dire la mia sull’argomento.
Mi sono resa conto che anche io sono immersa in questo meccanismo. E sinceramente sono così tanto ingranaggio di questo gioco di amicizie che non mi sento in grado di dire se sia giusto o meno. Ma tenterò (non senza tirare acqua al mio mulino, è ovvio).

È vero, a Palermo, l’amicizia è un passepartout che apre porte, porticine e a volta piccoli spiragli. Devo dire che però, a mio avviso, il palermitano in questo non lo fa per cattiveria o per opportunismo (la maggior parte delle volte). Quando qualcuno ti dice di andare da qual parrucchiere perché è fratello di un cugino del genero della tua vicina di casa lo fa per due motivi fondamentali: generosità e spacconeria.

Il palermitano, lui, è infatti generoso per natura. E la sua generosità è pandemica, perché anche a chi non conosce bene offre la sua amicizia. L’amicizia può scoccare all’improvviso (come un colpo di fulmine, degno dei film con Sandra Bullock), alle poste o sull’autobus, in ogni dove.
Prendete questa situazione: ti capita di scambiare due parole con un tipo, magari ti fa proprio simpatia, poi sopraggiunge il problema (perché tutti abbiamo un problema): lui ti racconta che non chiude occhio da giorni perché ha un problema all’anca. Cacchio! Tu che fai? Non puoi non partecipare della tragedia del tuo novello amico e lo compatisci e vuoi aiutarlo e, guarda caso, ti ricordi di avere un’amica (che non vedi da circa 15 anni) che fa l’ortopedica e gli dici di andare a tuo nome (lei si ricorderà senza dubbio, l’amicizia è senza tempo).

In pratica, che fai? Gli regali il tuo nome, senza chiedere nulla in cambio. A me capita spessissimo di fare cose del genere, d’altronde, se posso aiutare, perché non farlo? In fondo, io non vorrei che lo stesso trattamento fosse riservato a me?

E poi c’è quell’altra questione, che ho accennato prima, e questa è tutt’altro che secondaria. Anzi, muove la maggior parte dei comportamenti (buoni e cattivi) del palermitano.
Il palermitano è un parra parra, uno spaccone, insomma. Gli piace proprio fare vedere che ha una certa influenza, sia pure solo circoscritta al ferramenta o al panettiere o al medico di famiglia. E nel momento in cui ti concede di usare il suo patronimico (“vai a nome mio” sono le paroline magiche, quella formula ancestrale degna di Alibabà e i 40 ladroni), lui si sente invincibile, un padrone del mondo.
Che poi il mondo sia un cane che non conosce padrone, quella è tutta un’altra storia.

Quindi, in conclusione, quando comprendi che l’amicizia alla palermitana (io ovviamente faccio riferimento esclusivamente a quei piccoli favori innocenti che si possono concedere, non parlo di ben altri e più condannabili “favori”) fonda su questi due cardini che pescano nella buona fede, che male c’è ad approfittarne?


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