Ammaliamoci di open mic

Creato il 21 gennaio 2011 da Bitmag

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“Ma allora come fanno i giovani musicisti italiani a farsi conoscere e a farsi ascoltare senza gli open mic?”
Questa era la domanda di Brian, un cantautore dell’Alabama, alla quale mi sono trovato, non senza difficoltà, a rispondere non più di un paio di settimane fa allo Sky Bar di Tucson, in Arizona.
L’open mike o open mic  è una forma di evento che i locali, principalmente statunitensi ma anche in buona parte dell’Europa, propongono generalmente una volta a settimana per dare la possibilità a chiunque abbia qualcosa da dire o da esprimere, di esibirsi. Durante una serata open mic, che letteralmente si traduce come microfono aperto, viene preparato il palco con un microfono, uno sgabello e poco altro a seconda delle necessità. A quel punto viene aperta una lista sulla quale gli “artisti” si segnano ottenendo un numero per la propria esibizione. Ogni performance ha una durata standard, all’incirca quindici, venti minuti durante i  quali vige la piena libertà di parola, pensiero ed espressione artistica. Le uniche limitazioni sono quelle imposte dalle, insormontabili, leggi della fisica. Quelle, per intenderci, che ci impediscono di volare come gli uccelli.
Purtroppo, sembra che l’Italia non abbia subito il fascino di questo, relativamente recente e incredibilmente elementare, fenomeno di condivisione. Dico purtroppo perché la magia di una serata open mic è difficilmente individuabile in una qualunque altra serata in un locale. E’ con il semplice ausilio di un microfono acceso e collegato alle casse amplificate che si può trasformare uno spazio qualunque in un salotto dove le persone ritrovano il gusto di conoscersi, proporsi, farsi ascoltare e ascoltare a loro volta.
Come nella favola del pifferaio magico, i locali che propongono open mic  si riempiono di musicisti, poeti, comici, attori e chi più ne ha più ne metta. La notte non è più dominata da assordante musica da discoteca che impedisce il dialogo, ma animata da musica originale, da parole nuove, da risate e dalle stesse persone che iniziano a conoscersi, comunicare e condividere. Così si dà vita all’arte, quella pura che non nasce dalle riviste specializzate, ma dalle teste e dai cuori di chi la propone perché propria e bisognosa di essere condivisa.
Credo, quindi, che alla nostra Italia non farebbe affatto male lasciarsi contagiare dal “virus” degli open mic. Potrebbe, anzi, essere un sistema interessante per contrastare, seppur in maniera non più che amichevole, la crisi culturale che da qualche anno a questa parte sta affliggendo il “bel paese”.  Quindi, perché no, ammaliamoci di open mic e regaliamoci di nuovo degli spazi liberi per esercitare la nostra leggendaria fantasia e inventiva. Raccontiamoci e lasciamoci raccontare.
“Volevo solo ringraziarvi per essere venuti, perché momenti come questo sono sempre più rari in questi giorni in cui sembra che un odio potentissimo debba esploderci tra le mani e distruggerci tutti. Qui c’è la speranza delle persone che non si abbandonano all’odio, ma che invece vogliono conoscersi. Conoscere gli altri per conoscere un po’ meglio anche se stessi. Ah, dimenticavo, la vostra musica e le vostre parole mi hanno emozionato e commosso. Grazie di nuovo a tutti.” Così sintetizzava, nel miglior modo possibile, una serata open mic Jesus detto JJ, un giovane messicano che senza essere nè musicista nè poeta nè altro ha voluto condividere con la sala del Coyote Salon di Tucson il suo pensiero.
Nicola Paccagnani
 



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