[...] E a questo punto, aprii intieramente la porta.
Vi era solo la tenebra, e nulla più. Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito impaurito
sospettoso, sognando sogni, che nessun mortale mai ha osato sognare;
ma il silenzio rimase intatto, e l’oscurità non diede nessun segno di vita;
e l’unica parola detta colà fu la sussurrata parola «Eleonora!»
Soltanto questo, e nulla più. Ritornando nella camera, con tutta la mia anima in fiamme;
ben presto udii di nuovo battere, un poco più forte di prima.
«Certamente – dissi – certamente è qualche cosa al graticcio della mia finestra».
Io debbo vedere, perciò, cosa sia, e esplorare questo mistero.
È certo il vento, e nulla più. Quindi io spalancai l’imposta; e con molta civetteria, agitando le ali,
si avanzò un maestoso corvo dei santi giorni d’altri tempi;
egli non fece la menoma riverenza; non esitò, nè ristette un istante
ma con aria di Lord o di Lady, si appollaiò sulla porta della mia camera,
s’appollaiò, e s’installò – e nulla più. Allora, quest’uccello d’ebano, inducendo la mia triste fantasia a sorridere,
con la grave e severa dignità del suo aspetto:
«Sebbene il tuo ciuffo sia tagliato e raso – io dissi – tu non sei certo un vile, orrido, torvo e antico corvo errante lontanto dalle spiagge della Notte
dimmi qual’è il tuo nome signorile sulle spiagge avernali della Notte!»
Disse il corvo: «Mai più». [...]
Non abbiamo armi, perché dalla paura si scappa.
Sì, deve essere solo la mia immaginazione, un sussulto dell’aria, forse una piccola creatura dell’oscurità… e nulla più. Ma il buio è una bestia silenziosa, che avvolge e cela cose che ci sono ma non si vedono, e quando il tuo sguardo è sedotto nel naufragare in un punto fisso di un quadro senza luce, mentre le pupille si dilatano nel tentativo di catturare riflessi che non esistono, e si sta in ascolto, con il sospiro sospeso e il cuore che rimbomba nella testa, come un dito che martella nervosamente su un tavolo di legno in attesa di qualcosa che non si conosce, in quel momento capisci di fissare il nulla ma qualcosa nel nulla fissa te. E’ una tortura mentale autoinflitta che mina la propria sanità cerebrale, fino a produrre mostri che forse, ma soltanto forse, non esistono. Poe, Lovecraft, Goya, Nieztche… è la paura del buio, la tenebra come la pece, l’oscurità come abisso dell’anima che spaventa l’uomo dalla notte dei tempi.
E’ per questo motivo che Amnesia: The Dark Descent è un potente ansiogeno che probabilmente non riuscirete a giocare a luce spenta e con le cuffie sulla testa, perchè tale è lo stress psicologico che genera da indurre il giocatore a desistere, trincerandosi dietro alla scusa del “è troppo difficile” per fuggire da quel terrore sussurato che ti prende dentro, tipico delle cose irrazionali che non hanno ne forma ne sostanza.
Daniel si sveglia nell’oscurità del castello di Brennenburg e omaggia subito Memento, la pellicola cult di Christopher Nolan, brancolando in un’amnesia senza inizio e senza fine, la cui unica collocazione strutturale viene data dagli appunti che lo stesso Daniel aveva lasciato per se stesso fra i lunghi corridoi del lugubre maniero: “raggiungi le segrete, uccidi Alexander e guardati le spalle da un incubo che ti segue e divora la realtà”.
Non abbiamo proiettili, perché è della luce che abbiamo bisogno.
Tra l’inizio e la fine solo tanto buio. Nero e asfissiante. Saltuariamente infranto dalla flebile luce di una lanterna a olio e da una manciata di acciarini da centellinare come unico sottile filo che tiene insieme i pezzi del nostro cervello, prima di infrangersi nella più totale insanità mentale. Non proiettili. Non armi. Amnesia: The Dark Descent non segue la strada di Resident Evil, perchè è inutile pensare a come uccidere qualcosa che non si può uccidere: dalla paura si può solo scappare, almeno sino a quando non si è pronti ad affrontarla, e sarà cosi per tutto il gioco. Daniel dovrà fuggire quando si sentirà braccato, nascondersi nel buio, aspettando che i sospiri di bestie invisibili si allontanino, senza indugiare troppo nell’oscurità, che succhia la sua ragione come un’avida sanguisuga.
Non abbiamo tanti poligoni, perché il buio non ne ha bisogno.
Ma anche scappare non è facile. Il castello è buio, nero, denso. Si procede a tentoni per gran parte del tempo, sussultando ad ogni rumore, annegando nell’ansia. A volte è necessario attraversare intere sezioni a ritroso per risolvere alcuni enigmi, e quando sei costretto a farlo accorgendoti che non è rimasto più olio nella lampada, in quel momento qualcosa ti muore dentro e sei quasi sul punto di mollare tutto. Perchè hai un paura fottuta di buttarti di nuovo in tutto quel nulla popolato da mostri generati dal sonno della nostra ragione.
Il realismo dei controlli non fa che aumentare il senso di scoramento, la sensazione di scalare una montagna dal quale l’unica via possibile è quella di lasciarsi cadere: per aprire un cassetto o varcare un uscio, per esempio, non basta cliccare sulla maniglia, ma bisogna mimare con il mouse il gesto dell’apertura… e quando scappi da quel qualcosa che non ha senso, correndo nel buio, sbattendo in cose, senza sapere dove si sta andando, ti ritrovi senza accorgertene a chiudere tutte le porte che ti lasci alle spalle, nell’irrazionale tentativo di frappore qualcosa tra te stesso e il terrore che ti segue.
Amnesia: The Dark Descent non lo scopriamo certo adesso, l’avere qualche anno sulle spalle non ha forse giovato alla credibilità del suo reparto tecnico, ma non è certo questo un gioco che necessita di un vestito elegante per attirare l’attenzione e il passaggio da PC a Macintosh meritava di essere celebrato. Amensia fa paura, sino ad essere fastidioso. Ma non il fastidio visivo e disturbante tipico di Silent Hill: qua è il dubbio, che ti mangia da dentro.
Uno dei migliori horror psicologici degli ultimi anni. Ma giocatelo in inglese, la traduzione italiana fa un pò pena. Lo trovate sul Mac App Store, pronto per essere scaricato al prezzo – invero non troppo modico – di 15,99 €.