Agalloch: un legno soffice e resinoso (Aquilaria Agallocha) dal forte odore aromatico, usato come profumo da alcune popolazioni orientali.
Sono pochi i musicisti capaci di evocare nell’ascoltatore un preciso paesaggio sensoriale, fatto di immagini nitide e melodie sussurrate. Tra questi rientrano senza alcun dubbio gli Agalloch, il cui nome basta già a suggerire un qualcosa di remoto, parole e ambienti che sembrano lontani da qualsiasi collocazione temporale.
Formatosi più di quindici anni fa con un suono ancora difficile da catalogare, nel corso degli anni il gruppo ha saputo costruire intorno a sé una reputazione duratura, rendendosi di fatto una delle realtà metal più raffinate nel panorama internazionale. Il suo è uno stile costituito dalla contaminazione reciproca di più generi, dal black al folk metal primordiale, passando per elementi doom, neo-folk e anche post-rock. A un vero appassionato, però, non bastano pochi semplici termini per classificare il suono degli Agalloch, che di sicuro nasce e si evolve sotto l’influenza dei generi sopracitati, senza però omologarsi completamente. Etichettare il suono della band è tanto inutile quanto compararla ai più svariati nomi della scena metal: quando Dan Tobin, nella sua intervista del 1999 per Earache, chiese a Jason Walton un parere sui confronti che erano stati fatti tra Agalloch ed alcuni progetti affini, il bassista rispose dicendo che la cosa più importante era il non rinchiudere la band in una stretta cerchia di definizioni. Gli Agalloch muovono i primi passi in un contesto metal, certo, ma se ne distaccano come pochi altri. La loro musica va oltre le semplici classificazioni, è qualcosa che dev’essere vissuto e metabolizzato senza restrizioni.
Portland
Il gruppo nasce nel 1995 per volere di John Haughm (chitarra, voce, batteria) e Shane Breyer (tastiere). L’anno successivo arriva Don Anderson (chitarra), mentre Jason Walton (basso) si unisce agli altri dopo la registrazione della prima demo. I musicisti sono giovani (Haughm nel ’96 ha solo ventuno anni) e le esperienze musicali alle loro spalle non sono consistenti; nonostante questo, l’idea di quel particolare suono che li renderà celebri sta già maturando in modo più conscio di quanto si potrebbe credere, tant’è che il cantante ha spesso affermato di aver sempre avuto in mente quello che voleva esprimere sul pentagramma. Resta il fatto che, per un ascoltatore che abbia approfondito a dovere la discografia degli Agalloch, tutto sembrerà molto coerente, dagli esili esordi di From Which Of This Oak fino alla solidità compositiva di Ashes Against The Grain.
Gli Agalloch già dal 1999 si dimostrano una creatura essenzialmente animata dal genio di John Haughm, il quale non si limita solamente ai testi e alle musiche, ma arriva a influenzare anche l’importante comparto grafico (esemplari e significativi alcuni suoi scatti all’interno dei booklet). Questo non è un indizio da poco: la compattezza concettuale degli Agalloch è dovuta in gran parte all’enorme mole di input che Haughm è stato capace di unificare in modi coerenti ed efficaci. Le parole, le melodie, i rumori, le immagini sono tutti aspetti di una singola entità, che attraverso diversi stimoli punta a esprimere uno stato d’animo, o forse qualcosa di più, magari un modo di vivere il mondo. La serietà con cui questo maelstrom di contenuti viene proposto al pubblico dimostra nuovamente l’unicità del gruppo, che segue un percorso (un path idilliaco) tutto suo, astraendosi da qualsiasi mondanità.
From Which Of This Oak e Pale Folklore, gli inizi
Il 1997 è l’anno dell’esordio per la band, con la demo From Which Of This Oak. Si tratta di un lavoro grezzo e piuttosto lontano dagli standard che verranno raggiunti nel giro di tre o quattro anni, tuttavia possiamo già rintracciare alcuni degli elementi che renderanno unici tutti i dischi a nome Agalloch, a partire da quelle linee di chitarra che avanzano ininterrotte minuto dopo minuto, con l’elettrica che incide i brani nel profondo con ruvide melodie. From Which Of This Oak è comunque molto utile non solo a cogliere le radici black metal degli Agalloch, qua più accentuate rispetto ai dischi successivi, ma anche a comprendere meglio il loro sofisticato metodo di scrittura, ancora acerbo ma tuttavia di rara intelligenza, lo stesso che ritroveremo potenziato poi nell’esordio Pale Folklore: all’interno di From Which Of This Oak è infatti presente una versione di “As Embers Dress The Sky”, immatura ma dalle idee ben focalizzate. La voce è diversa, uno scream greve e gutturale, e certi riff differiscono in alcuni passaggi. L’idea di aggiungere parti ambientali e inserti vocali femminili era già abbozzata, e infatti “Foliorum Viridum” ricorda molto la “Misshapen Steed” di due anni dopo, così come l’accenno neoclassico della prima versione di “As Embers Dress The Sky” viene rivisitato in Pale Folklore (sia nell’apertura del disco, sia nell’omonimo brano). La struttura generale del pezzo a distanza di due anni rimarrà comunque la stessa, con alcuni cambiamenti non invasivi ma importanti, a dimostrazione di come la band fin dagli inizi sapesse benissimo dove indirizzare il proprio suono, rendendolo inconfondibile.
Pale Folklore (1999) è l’album di debutto, e anche se esce solo due anni dopo la prima demo, il divario tra i due dischi rimane immenso. Il trittico in apertura (“She Painted Fire Across The Skyline”) lascia senza fiato, con quel semplice riff che per oltre tre minuti incanta e ipnotizza, per poi sprigionare tutta l’energia che fin lì era rimasta solo un vago eco in lontananza, tra batteria veloce, chitarre incalzanti e parole lacerate. Haughm si dimostra già un cantante estremamente abile, e col senno di poi si può dire che la sua voce in tutti questi anni non è sostanzialmente cambiata, si è solo fatta più profonda, più vissuta. Resta il fatto che le sue grida così sofferte ma al contempo posate diventeranno subito uno dei marchi distintivi del gruppo, sia che si tratti di cori, pezzi lenti o accelerazioni. Pale Folklore contiene in sé buona parte del suono-Agalloch come lo conosciamo oggi, dagli inserti atmosferici alle complicate trame compositive che solo poche altre band sanno creare. Con questo non si intende di certo affermare che dal punto di vista stilistico il gruppo sia rimasto sostanzialmente fermo, tant’è che ogni disco suona in maniera differente; si fa semplicemente notare che sono già presenti (quasi) tutti quegli elementi che negli anni a venire saranno poi declinati, distorti, approfonditi in una maniera non radicale ma comunque originale. L’unica cosa che manca è la chitarra acustica in primo piano, che a partire dal successivo album acquisisce un ruolo fondamentale nel songwriting del gruppo. Nota importante: questo è l’ultimo disco con Breyer, che subito dopo la registrazione decide di abbandonare la band.
Pale Folklore – almeno per me – resta il miglior lavoro degli Agalloch, disco che mai verrà eguagliato negli anni a seguire, sia dal punto di vista delle sensazioni sia da quello tecnico. È un peccato notare che probabilmente si tratta anche del loro disco più sottovalutato, nonostante l’inarrivabile genuinità e la disarmante bellezza.
The Mantle e i prototipi
Nel 2002, dopo un ep di transizione (l’interessante Of Stone, Wind And Pillor), esce il secondo full length, The Mantle. Si tratta forse dell’album più debole dell’intera discografia, ma non per questo va sminuito: la musica perde qualcosa del suo spessore, ci sono molti brani lenti e il mood generale si è fatto più tetro e scarno, dal tono apocalittico (in apertura abbiamo “A Celebration For The Death Of Man” e in chiusura “A Desolation Song”, due brani tanto strazianti quanto irresistibili). Questo è sicuramente il disco più sofferto degli Agalloch, dove uno stato d’animo molto negativo si riverbera a livello strumentale e vocale, in un modo mai ripetuto negli album successivi. È sicuro anche che proprio questo clima malinconico sia la componente più importante degli Agalloch dei primi anni 2000, un elemento che va a toccare i giusti tasti della sensibilità di chi ascolta. Of Stone, Wind And Pillor è il prototipo di questo suono particolare, anche se è un lavoro ancora incompleto. Le similarità tra l’ep e l’album sono comunque tantissime, e si nota con facilità che gli elementi migliori del primo sono stati raffinati e approfonditi nel secondo. Da questo, infatti, The Mantle eredita quella particolare atmosfera che sa essere solenne e decadente allo stesso tempo: le sue melodie tristi avvolgono delicatamente ogni brano, abili nell’evocare con successo sensazioni vivide e toccanti.
The Mantle scivola via tra alti e bassi, ma è proprio in questo disco che cresce l’amore per la chitarra acustica. Ora non è più un semplice riempimento, ma diventa colonna portante di ogni pezzo: quando non è assoluta protagonista (“A Desolation Song”), si rivela essere la controparte perfetta del riffing elettrico (“In The Shadow Of Our Pale Companion”). Ragionando in termini schematici si può dire che gli Agalloch abbiano fatto un passo di lato anziché in avanti, raggiungendo una nuova forma sonora che comunque non va a modificare sostanzialmente l’impronta del gruppo.
Bisogna attendere quattro lunghi anni prima di poter ascoltare un nuovo album, e intanto gli Agalloch pubblicano due ep e uno split. Tomorrow Will Never Come Ep presenta una rivisitazione dell’opener di The Mantle più un brano inedito, mentre The Grey Ep consiste in una “The Lodge” destrutturata e riassemblata, a cui si aggiunge il remix di “Odal”. Tutto materiale direttamente connesso con il disco del 2002, godibile ma trascurabile. Lo split invece è una piccola gemma ormai difficile da reperire: un brano a testa tra Agalloch e Nest, progetto dalle coordinate simili ma più vicino a sonorità tipicamente ambient.
Our Fortress Is Burning…
Ashes Against The Grain (2006) è considerato da molti come il miglior lavoro del gruppo, e non a caso è stato proprio questo ad attirare in modo definitivo l’attenzione della stampa e del pubblico internazionale. Il suono adesso è più concentrato, con meno passaggi minimali e dispersivi, mentre le chitarre si rendono particolarmente vivaci. Stessa situazione per la batteria, più in vista che mai, anche se non sempre riesce a convincere (troppo piatta e ripetitiva in “Falling Snow”, ad esempio, seppur con qualche buono spunto). La trama creata dall’intreccio delle chitarre è di rara intensità, i minuti scorrono senza che il suono ceda nulla della sua energia iniziale, ed anzi non fa che crescere. Il momento più alto si raggiunge con la penultima traccia “Bloodbirds”, capolavoro di musica e parole, dove gli Agalloch dipingono il loro ritratto più oscuro dell’uomo, un grido di disperazione commovente. Il gruppo riesce di nuovo a generare un sentimento che va oltre il semplice piacere, una commistione di gioia e rassegnazione, tra declino e pace dello spirito.
Ashes Against The Grain rappresenta il punto di massima maturità per Haughm, un vero poeta, che oltre a scrivere testi di rara bellezza riesce pure a eseguirli attraverso semplici sussurri o grida disperate, mantenendo comunque quell’inconfondibile tono di voce capace di suscitare sensazioni uniche anche nella sua forma più grezza o violenta. Questo full length è un vertice per il gruppo e segna il raggiungimento di una forma in cui convivono elementi di natura diversa ma che sanno controbilanciarsi senza stonare, la fine di un cammino ma anche l’inizio di uno nuovo, tant’è che gli Agalloch di quattro anni dopo saranno piuttosto cambiati.
The White, una variazione sul tema
Nel 2008 la band pubblica quello che potrebbe essere il suo disco più intimo: The White Ep. Sette tracce di (neo)folk minimale con incursioni elettroniche, dove l’unica protagonista è, ovviamente, la chitarra. Poche percussioni, elettriche ridotte al minimo, dilatazioni ambient e cori vanno a formare un piccolo capolavoro con un suono a dir poco affascinante, intenso e coinvolgente. La voce in questo disco viene relegata a un ruolo meno esposto ma senza dubbio indispensabile, tra poesie recitate (la sublime “Birch White” di A. S. J. Tessimond) e sample cinematografici. The White Ep da questo versante si propone, in modo implicito, come la colonna sonora ideale di “The Wicker Man”, il film del 1973 di Robin Hardy, interpretato da Edward Woodward e dal sempre ottimo Christopher Lee. Forse “colonna sonora” non è il termine giusto per descrivere il disco in relazione con la pellicola: è più un omaggio, una reinterpretazione in chiave musicale del tema trattato e delle sensazioni che ne derivano. Resta il fatto che in “The Isle Of Summer” gli Agalloch citano il coro di bambini che si vedono nell’isola di Lord Summerisle solo per pochi istanti, mentre in “Sowilo Rune” e “Summerisle Reprise” vengono riportati due splendidi dialoghi tra i protagonisti, rappresentazione di uno scontro non solo culturale, ma anche umano e sociale.
La band ha estrapolato dal proprio suono alcuni semplici elementi e ci ha costruito sopra un ep che è la dimostrazione di come i suoi dischi siano l’unione di varie identità, differenti e profonde, frutto quindi di una eterogeneità di influenze che in fase compositiva confluiscono in uno stile che è originale e inarrivabile. The White è la sintesi di tutto ciò che non è metal negli Agalloch e – pur essendo una sorta di esperimento – non si può fare a meno di riconoscere quanto sia riuscito alla perfezione.
Qualcosa di diverso
Marrow Of The Spirit esce a novembre 2010, circa una decina d’anni dopo quel Pale Folklore che è indicato come l’esordio ufficiale. Un traguardo notevole, considerando anche il fatto che gruppo non ha fatto che migliorare. Il primo approccio lascia letteralmente spiazzati, viene da chiedersi se per caso si stia ascoltando il disco sbagliato: dopo una intro sostanzialmente ambient, parte “Into The Painted Grey”, un assalto di metal estremo ma con quel tratto distintivo che solo gli Agalloch riescono ad avere. Il ritmo rimane quasi sempre su velocità elevate e la voce di Haughm regge molto bene il passo, almeno finché serve, dato che i brani successivi saranno complessivamente piuttosto lenti. Seguono infatti pezzi come “The Watcher’s Monolith”, dall’umore e dai suoni molto vicini a The Mantle, e l’atipico “Black Lake Nidstång”, complesso mosaico di sussurri, riverberi, grida e riff sconnessi avvolto da un’atmosfera rarefatta. A chiusura del disco troviamo “To Drown”, un pezzo che si presenta riflessivo e delicato per poi raggiungere, in un bellissimo crescendo, una dimensione più rumorosa e tragica.
Marrow Of The Spirit è un album molto diverso dal suo predecessore, almeno sotto alcuni aspetti. Le chitarre sono più calde rispetto a Ashes Against The Grain, sicuramente anche più melodiche, così come la voce, che sembra essersi levigata col passare del tempo. A livello strumentale, insomma, non c’è nulla che sia fuori posto, tutti gli elementi sono ben dosati tra loro, la produzione è perfetta e il risultato finale è a dir poco spettacolare. Va notato però che i brani talvolta diventano leggermente dispersivi: i 17 minuti di “Black Lake Nidstång” contengono un suono strutturato su differenti stati d’animo, ed anche se questi sono uniti e mescolati in modo convincente resta il fatto che l’ascoltatore, nei momenti più minimali, potrebbe perdere la concentrazione. Da questo punto di vista gli Agalloch non si sono preoccupati di sintetizzare in pochi minuti le idee più interessanti, permettendosi invece di sviluppare all’interno di ogni brano vari elementi che talvolta hanno spazi distinti tra loro.
Quest’anno la band festeggia il quindicesimo anniversario del suo primo disco (From Which Of This Oak, 1997) e – coerentemente ai suoi ritmi – pubblica il nuovo ep Faustian Echoes. Si tratta di un’unica traccia di 21 minuti, la più lunga mai scritta dagli Agalloch, ispirata come suggerisce il titolo dal mito del Faust. Musicalmente questo brano non si allontana molto da Marrow Of The Spirit: le chitarre suonano più o meno con gli stessi effetti e distorsioni, la voce di Haughm è efficace come al solito, ci sono momenti slanciati e sezioni più dilatate. Faustian Echoes si fa ascoltare con piacere, ma non è ovviamente un disco essenziale, manca qualcosa che lo renda incisivo. Probabilmente il gruppo non si è impegnato tanto quanto accaduto con gli ep passati, ma un punto debole in una discografia pressoché perfetta glielo si perdona tranquillamente.