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Amore a prima vista

Creato il 21 luglio 2014 da Cultura Salentina

Amore a prima vista

21 luglio 2014 di Redazione

di Luca Portaluri

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Negli ultimi quattro mesi sono stato un prete fumoso, un poeta fallito, un papà che vola in aereo per la prima volta con la propria figlia emozionata quanto lui, un comandante di una nave albanese che sta per essere speronata da un’ammiraglia italiana, un cantante dall’atteggiamento sensuale e ammiccante, un povero vecchio pieno di tic.

Alcune volte ho scelto di essere tutto ciò, altre volte sono stato invitato ad immaginarmi di esserlo e comportarmi di conseguenza. Al contrario di tanti di voi lettori, ho la fortuna di vivere non una vita, ma molteplici, quelle dei personaggi che devo interpretare. E non vedo l’ora di poter vivere momenti da elettricista incompetente, da giornalista arrivista, da casalinga fascista, da avvocato corruttibile o da segretaria tuttofare.

Tutto ciò è possibile perché partecipo da quattro mesi ad un corso di teatro: e, credetemi, il passo dalla semplice partecipazione all’amore verso di esso è Breve.

Ho iniziato a conoscere il valore delle pause e dei silenzi, le prime più brevi, i secondi più lunghi quando si rappresenta una scena, nel gergo teatrale. Beh, se nella vita si cominciasse a tollerare e ad usare le une e gli altri prima di parlare, sono sicuro che i rapporti interpersonali, tutti, ne troverebbero giovamento. Nella stragrande maggioranza dei casi. Mi accorgo ormai consciamente che rimanere muto una frazione di secondo in più durante una conversazione mi aiuta a esporre più dolcemente una critica eventuale all’interlocutore, ma anche, perché no, a calibrare meglio un insulto; una bella frase potrebbe fare più effetto dilatando impercettibilmente il tempo per dirla.

Sto imparando (sarebbe bugiardo affermare di avere già imparato) ad ascoltare i silenzi dei miei compagni d’avventura al citato corso, siano essi attori già con anni d’esperienza, siano essi come me neofiti dei provini, degli sketch d’improvvisazione, e di tutto ciò che concerne la preparazione e lo studio di un’opera teatrale.

Ascoltare i silenzi. Rispettarli. Tollerarli. Seguire le pause. Respirarle. Impararle. Un regista d’avanguardia teatrale polacco, tal Jerzy Grotowski, affermò che “il teatro non è indispensabile, ma serve solo ad attraversare le frontiere tra te e me”. E secondo voi cosa c’è di più vitale e pieno di senso al mondo d’oggi dell’attraversamento di una frontiera comunicativa, interpersonale, tendente alla conoscenza dell’altro? Ho cominciato poi durante questo stesso tempo a (ri)conoscere l’importanza delle maschere e delle smorfie, indispensabili a teatro quanto sterili, ipocrite, infantili e grette nella vita reale.

Ho imitato le facce dei miei compagni, nei loro ghigni sarcastici o nelle loro risate sguaiate, e loro hanno cercato di imitare me durante gli esercizi di ginnastica facciale. Ridendo. Per poi ridiventar seri un attimo dopo, in un gioco volto sempre a captare la bellezza insita negli angoli più reconditi e sacrificati di un viso, o nelle sfaccettature frastagliate di uno sguardo da dover empaticamente decifrare. Non so se lo sapete ma a me piacciono gli aforismi e le citazioni, quelle intelligenti, che spesso raccontano una visione soggettiva e parziale di mondo. Beh, il grande Eduardo De Filippo sosteneva che “nel teatro si vive sul serio quello che gli altri recitano male nella vita”. Si può condividere o meno, ma sicuramente offre spunti di caustica riflessione. Perché almeno secondo me una finzione scenica è molto più vera o sentita o emotivamente partecipata di innumerevoli convenevoli quotidiani, e frasi ridondantemente di circostanza. In ogni caso, durante le sei ore settimanali di corso, è come se venissi trasportato tramite ascensione su una navicella spaziale e potessi eclissarmi insieme ad altri fortunati terrestri nell’orbita di un mondo parallelo, scevro da stress, litigi, invidie, complessi di colpa, tristezze e delusioni presenti nella realtà di tutti i giorni. Secondo l’amatissimo scrittore Paulo Coelho “certe persone vivono in lotta con altre, con se stesse, con la vita. Allora si inventano opere teatrali immaginarie e adattano il copione alle proprie frustrazioni”. Come non dargli ragione? Pensateci; dal mio canto, mi sto convincendo che fare teatro (amatorialmente, sia chiaro) può essere terapeutico e può avviare un processo beneficamente contrario a quello esplicitato dallo scrittore e poeta brasiliano appena citato: stimolando l’educazione alla sensorialità e alla percezione del proprio movimento corporeo, e dei propri toni e timbri vocali, agendo sull’interpretazione dei personaggi, dei loro difetti e consuetudini e azioni la recitazione sa sviluppare armonia tra corpo, voce, mente nella relazione con l’altro, con se stesso e con la propria capacità creativa ed espressiva.

La parola “teatro” è un sostantivo maschile, non ha né sinonimi né contrari; ma io, per gioco, voglio immaginare che ne possa avere, e uno dei contrari più efficaci che possa trovare è atarassia, quella condizione di imperturbabilità, raggiungibile mediante la liberazione dalle passioni: il teatro, al contrario appunto, è energia, linfa vitale, passione, sbagli, prove, pianti e sorpresa continua.


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