Dal diario di Annetta Stevenson
Minster Lovell, 14 novembre 1911, ore 19,09
L’amore, allargata solitudine.
Se solo, ancora lo ripeto per sempre.
Se solo, d’improvviso come un lampo, io gioia divenissi, allora, non più il terrore parlerebbe: ammutolito.
In questi giorni d’abbagliante dolore, accecata dalle grida cammino sbandando, incontro all’amore che invento, tra apparizioni di cuori.
Perché il dolore se di strazio le sue membra riveste, allora, affinché non uccida chi tremando lo stringe, in lontananza compare l’amore, e ha braccia che chiamano, dicono vieni da me, raggiungimi attraversando una bufera di sangue, perché io sono qui, per tenerti.
E tu, seppure già quasi morto, allora lo guardi, e riprendi a rivivere, per riuscire a sfiorarlo.
Già senti il calore sciogliere il freddo, guarirti, e attraversi quella bufera di sangue, che a ogni passo si trasforma, in apparizioni di cuori.
E io so che è terrore la vita, anche senza dolore è terrore. La vita è terrore, non altro, è terrore. La vita è terrore, anche quella innocente, pulita, di luce, è terrore. La vita è terrore.
E io so che non esiste nessuna salvezza, nessuno si salva, neppure i giusti, i virtuosi, gli impeccabili, gli incolpevoli, e neppure Dio, Gesù Cristo, i santi, le vergini e i martiri, perché è terrore la vita, non altro, è terrore che guarda, impassibile.
E allora non è vero, che se d’improvviso come un lampo, io gioia divenissi, non più il terrore parlerebbe: ammutolito. Non è vero, parlerebbe come sempre, nel silenzio, guardandomi impassibile.
Se solo io non sapessi, non gli occhi, non questa sensibilità, non queste ossa. Se solo io non capissi, nessun lirismo, non questa poesia che mi squarcia. Se solo, non questo terrore, la vita.
Alexander, tu sei l’amore che invento in questi giorni d’abbagliante dolore, e nel terrore verso di te cammino sbandando, in un’allargata solitudine.
Alexander, le tue braccia mi stanno parlando, al termine di una bufera di sangue.