di Riccardo Achilli
Con l’approvazione ufficiale del Def, si è in grado di fornire una indicazione, sia pur non ancora consolidata (come è noto, il Def va inviato, insieme al Piano Nazionale delle Riforme, alla Commissione Europea, entro metà aprile, in modo tale che, entro giugno, pervengano al Governo nazionale le “raccomandazioni” comunitarie, vero e proprio antipasto di possibili, per non dire probabili, modifiche al quadro previsionale di finanza pubblica, ed alla stessa manovra di stabilità per il 2016 che il Def anticipa, a grandi linee. Vale la pena ricordare che, l’anno scorso, le previsioni di disavanzo nominale rispetto al Pil, inizialmente stabilite al 2,2% da Padoan, sono state portate al 2,6% su pressione della Commissione, evidentemente portando ad una manovra di stabilità più pesante e recessiva di quella inizialmente abbozzata).
Iniziando dal quadro previsionale di finanza pubblica, esso si basa su una ipotesi di progressivo irrobustimento, sotto forma di vera e propria ripresa, della crescita, che quest’anno dovrebbe attestarsi sullo 0,7%, per poi arrivare all’1,4% nel 2016 ed all’1,5% nel 2017. Tale ipotesi si bassa su una ripresa delle esportazioni, che dal +2,7% del 2014dovrebbero crescere del 3,8% nel 2015 e del 4% in ciascuno dei due anni 2016 e 2017, degli investimenti privati (che dopo il calo di 3,3punti nel 2014 dovrebbero crescere di 1,1 punti nel 2015, e di 2,1punti nel 2016) e dei consumi interni, che dovrebbero crescere dello0,8% nel 2015 (dopo lo 0,3% del 2014) fino all’1,4% nel 2017.Completa questa rosea previsione una riduzione di spesa per interessi sul debito pubblico pari a 0,3 punti di PIL (ovvero, per un risparmio pari a poco più di 4,9 miliardi).
Questo quadro macroeconomico a rose e fiori dovrebbe quindi contribuire agli obiettivi di finanza pubblica, ovviamente anch’essi visti in miglioramento. Il deficit nominale sul PIL , passerebbe dal 2,6% del2015 all’1,8% l’anno prossimo, fino ad azzerarsi nel 2018,portando ad un pazzesco avanzo di 0,4 punti nel 2019. Il rapporto fra debito pubblico e PIL scenderebbe, dunque, dal 132,5%, al 130,9%l’anno prossimo, fino al 127,4% nel 2017. Il pareggio strutturale di bilancio (al netto cioè degli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum) verrebbe raggiunto nel 2017, scendendo di un punto decimale fra 2015 e 2016 (da -0,5% a -0,4%).
Questo quadro surreale come un dipinto di Dalì (ma evidentemente privo della stessa qualità artistica) porta ad una prosa nella retorica governativa che sfocia nel dadaismo. Fondamentalmente, tutto ciò verrebbe ottenuto senza aumentare le tasse, ma anzi abbassandole in rapporto al PIL, senza incidere sulla spesa pubblica produttiva, che anzi aumenterà (la spesa pubblica in conto capitale dovrebbe aumentare di 3,5 miliardi fra 2015 e 2016) ed addirittura si sarebbe trovato un presunto bonus di spesa di 1,6 miliardi da destinare a un qualche provvedimento urgente di natura sociale o produttiva (sulla destinazione, l’impetuoso Renzi trova un istante di riflettività, anche perché, come meglio si dirà, non è affatto certo che il cosiddetto bonus, dopo il vaglio della Commissione europea, esisterà ancora). Il cittadino medio, che non ha una laurea in economia, e non sa la differenza fra un quadro tendenziale ed un quadro programmatico dovrebbe essere portato a credere, illudendosi, che il DEF stia aprendo la strada ad una inversione radicale delle politiche economiche, in direzione di una illuminata espansione economica accompagnata da una armoniosa virtù nei conti pubblici. Ed addirittura, Renzi si spinge a dire che le stime del Def sono “prudenziali” (!) lasciando sottendere chissà quali prelibati frutti di una nuova stagione di sviluppo, che per modestia (!!) non ci vuole ancora disvelare, a noi poveri gufi abituati alla durezza della quotidianità ed al principio della realtà.
Ora, evidentemente, le cose stanno in modo diverso. Una ripresa economica trainata dalle esportazioni presuppone che lo sviluppo del commercio mondiale sia solido. Ora, su questo solido sviluppo pesano enormi incognite, dalle cifre non proprio entusiasmanti della ripresa statunitense, che potrebbe arrestarsi improvvisamente quando quest’estate un Congresso molto meno accomodante del passato (anche perché ci avviciniamo alla lunghissima maratona presidenziale) dovrà discutere del nuovo “tetto del debito”, e già circolano ipotesi di politiche di austerità recessive, al rallentamento di quasi tutte le economie emergenti (Cina, sulla quale pesa addirittura una potenziale bolla immobiliare e finanziaria, Russia, Brasile) ad un profilo di ripresa del Giappone non proprio entusiasmante. Senza contare che, sul mercato europeo, il crescente surplus commerciale tedesco schiaccia gli spazi di crescita dei partner (per l’ovvio principio fisico secondo il quale se aumenti le quote di mercato si riducono quelle degli altri). Ed infine, l’effetto di svalutazione dell’euro sul dollaro è, per le stesse ipotesi di base del DEF, limitato al solo 2015, sostanzialmente arrestandosi negli anni successivi.
D’altro canto, la prevista ripresa della domanda interna per consumi ha aspetti esoterici, atteso che la fase di declino del prezzo del petrolio sembra essersi arrestata, il deflatore dei consumi mostra tensioni inflattive di ritorno già da fine 2015, e la crescita dei redditi, che nelle ipotesi del DEF addirittura passerebbe da +1,3% nel 2015 al+2,4% nel 2016 (cioè raddoppiando la velocità di crescita) è una favoletta ridicola, in una stagione in cui il Jobs Act e l’indebolimento dei sindacati ha eliminato ogni possibilità di negoziare margini di aumento del salario. Stendiamo un velo pietoso sull’aumento previsto degli investimenti, che dovrebbe poggiare su un credito di imposta per le imprese che investono in R&S (ma con mercati ancora instabili le imprese non investiranno), su una aspettativa di ripresa del credito legata al QE della Bce (ma i primi dati per il 2015 segnalano un ulteriore peggioramento del credit crunch, come è evidente. Le banche se ne fottono della maggiore liquidità loro offerta se i loro coefficienti patrimoniali continuano ad essere precari, e se l’aspettativa è che la vigilanza europea unica inasprisca i criteri patrimoniali stessi) e sulla partecipazione al modesto programma di investimenti pubblici messo a punto da Juncker, che dovrebbe portare fuori dal calcolo del patto di stabilità alcune voci di investimento, che però ancora non sono specificate, poiché il regolamento è in redazione, quindi è assai arduo formulare previsioni macroeconomiche in merito). E per carità di Patria tacciamo sugli effetti espansivi delle riforme strutturali attuate dal Governo Renzi, che secondo il DEF porterebbero a 0,4 punti di PIL nel 2016 con una crescita del loro peso fino a 1,8 punti nel 2020. Va rilevato, infatti che, come esprime la tabella a pag. 48 della Sezione I, il grosso dell’impatto proviene dalla riforma del mercato del lavoro (ma evidentemente le imprese non assumono lavoratori solo perché viene abolito l’articolo18, ma primariamente se ci sono i mercati per poter ampliare la base produttiva, quindi l’effetto espansivo del Jobs Act è una mera favola, come mostrano numerose ricerche sull’impatto della flessibilità lavorativa sulla crescita). Al secondo posto, come impatto, verrebbe la riforma della P.A. che però ha il piccolo difetto di non essere ancora attuata (e peraltro, la tenue speranza di chi scrive è che una simile riforma imbecille non venga attuata mai).
Evidentemente, quindi, poiché la manovra di stabilità per il 2016, al fine di scongiurare le clausole di salvaguardia (essenzialmente, per scongiurare il maxi-aumento dell’Iva, che sarebbe evidentemente la pietra tombale sulle già irreali aspettative di ripresa della domanda interna per consumi) dovrebbe poggiare per almeno 6,5 miliardi sul miglioramento atteso della crescita, è del tutto ovvio che, invece, possiamo aspettarci esattamente l’attivazione di tali clausole, con qualche mese di ritardo, quando la Commissione si sarà stancata del giochino delle tre carte che Renzi inscenerà, insieme ai suoi ciambellani.
Cosa succederà realmente nel 2016 e 2017? Succederà che il saldo primario (spese – entrate pubbliche al netto del pagamento degli interessi sul debito) dovrà, nel 2016, migliorare di circa 14 miliardi, rispetto ai 26 miliardi con cui si prevede di chiudere il 2015. Ciò si otterrà mediante un taglio delle spese per 4,1 miliardi, privatizzazioni di ciò che resta del patrimonio imprenditoriale pubblico per circa 8,2 miliardi, ed 1,8 miliardi di maggiori entrate. L’artifizio retorico di Renzi, per cui non vi saranno maggiori tasse, è smascherato dalla manovra che verrà fatta su deduzioni e detrazioni fiscali che, pur mantenendo formalmente inalterate le aliquote fiscali, aumenterà la pressione fiscale per riduzione dell’area dei benefici fiscali(producendo quindi, sul contribuente finale, lo stesso effetto di un aumento effettivo della tassazione). Si tratta cioè né più né meno che di una solenne presa in giro degli italiani, cui la comunicazione renziana ci ha abituati. Sul versante del taglio delle spese, esso sarà sostenuto mediante una nuova, ulteriore, tornata di spending review (che dovrà garantire ben 9,8 miliardi nel 2016, alfine di coprire l’aumento delle spese pubbliche di investimento ed altri aumenti di parte corrente), che sarà così concepita:
-
Per gli enti locali proseguirà il processo di efficientamento già avviato nella Legge di Stabilità 2015 attraverso l’utilizzo dei costi e fabbisogni standard per le singole amministrazioni e la pubblicazione di dati di performance e dei costi delle singole amministrazioni;
-
In tema di partecipate locali saranno attuati interventi di smantellamento (ai danni ovviamente del personale che ci lavora), con particolare attenzione ai settori del trasporto pubblico locale e alla raccolta rifiuti.
-
Numerose strutture periferiche dello Stato saranno chiuse, senza garanzie per il personale, come nel caso delle Province.
- Immobili utilizzati dalle amministrazioni sanno venduti;
-
Sarà completato il processo di razionalizzazione delle stazioni appaltanti e delle centrali d’acquisto per gli acquisti della PA.
L’insieme di tale manovra sarà recessivo, e, in modo implicito, al di là delle facili ricamature comunicative, lo stesso DEF, nel differenziale fra PIL tendenziale e PIL programmatico, stima tale effetto in 0,3 punti di PIL persi per il 2016 come conseguenza della manovra di stabilità sopra descritta.
E ciò che è ancora più spaventoso è che tale scenario è il migliore possibile. E’ infatti del tutto improbabile che la Commissione Europea faccia passare questa ipotesi, per la manovra di stabilità del 2016. Tale ipotesi, infatti, rinvia al 2017, anziché al 2016, come da impegni assunti, il pareggio strutturale di bilancio. E lo fa auto attribuendosi, del tutto arbitrariamente, la clausola di flessibilità per le riforme fatte e quelle previste nel PNR allegato1(sul quale occorrerebbe fare un approfondimento a parte). Ma non è affatto detto che la Commissione accetti questa impostazione, e conceda effettivamente la flessibilità, anche perché è difficile che si approvi una manovra in cui il grosso è costituito da introiti o risparmi di non immediata realizzabilità, come le privatizzazioni e la spending review (che come visto in questi anni, comporta benefici diluiti nel tempo). E tra l’altro, la Commissione potrebbe non bersi le ottimistiche previsioni macroeconomiche del Governo (vedi sopra la discussione sulle previsioni). Abbassando l’asticella della crescita, l’entità della correzione di bilancio ovviamente cresce. Nell’ipotesi peggiore, in cui il pareggio di bilancio strutturale dovesse essere imposto per il 2016,infatti, la manovra dovrebbe portare ad un saldo primario di quasi 28miliardi, in luogo dei 14 previsti, con una perdita di quasi un punto di PIL.
(1) La clausola di flessibilità prevede infatti condizioni stringenti nella valutazione della fattibilità, efficacia di lungo periodo e rilevanza delle riforme proposte, prima di concedere il bonus.
P.S. sul cosiddetto “tesoretto” da 1,6 miliardi: in realtà, quella somma deriva dalla differenza fra il deficit/PIL del quadro tendenziale (cioè del quadro delle finanze pubbliche in assenza degli interventi previsti dal DEF), pari al 2,5%, e il rapporto che emerge dal quadro programmatico (cioè in presenza di interventi) pari al 2,6%. Quel decimale di differenza ammonta proprio a 1,6 miliardi, e secondo il Governo potrebbe essere concesso dai nuovi regolamenti Ue che interpretano la flessibilità di bilancio, in presenza di un output gap negativo e superiore a 3 punti(cioè in presenza di una crescita inferiore al potenziale massimo di crescita, stimato mediante la quantificazione del PIL potenziale).Ma se la Commissione dovesse imporre un inasprimento della manovra per il 2016, anche questo tesoretto sparirebbe.