Magazine Diario personale
Analisi postuma, difettosa e sostanzialmente inutile. (Ma che richiede un sacco di minuti di recupero, oltre i supplementari, anche).
Da Danielabigi81Capita, alle volte, che l'amore finisca. Anzi, capita molto spesso, che l'amore finisca. Prima o poi. Dopo aver compiuto il suo corso, breve o lungo che sia, in tutte le sue fasi. L' innamoramento, la cieca passione, l'idealizzazione, la condivisione di interessi e opinioni, la costruzione di obiettivi comuni, la fiducia-stima-sintonia reciproca.
Se qualcuna di queste va storta, è facile che - per chi riesce a guardare in faccia alla realtà (e non è facile nelle questioni di cuore) tutto l'ambaradan volga dritto per dritto alla scritta a caratteri cubitali "The End" (e vissero felici e contenti, ma non insieme).
D'accordo. Forse sono stata un po' troppo sbrigativa.
Ma non è questo il punto.
Non è nella fine di una relazione, la sofferenza.
Non si annida nella conclusione, nel finale. No. Anzi, molto spesso, la fine libera da essa, elimina le frustrazioni, affranca dal senso di colpa, esclude dalle accuse, interrompe una discesa verso un irrimediabile punto di non ritorno. Un punto dove i comportamenti diventano ciclici, dove non ci si accorge nemmeno più di quali errori vengono commessi, perdendo il senso di realtà. Un punto in cui non si condivide più, non ci si confronta più. A dato stimolo A, corrisponde data risposta B, come i cani di Pavlov. Non si riesce più a costruire niente. Rimane solo lo scontro, la distanza, l'amarezza, l'idea di avere sbagliato, di avere visto una persona solamente con i nostri occhi, come la avremmo voluta, senza considerare come è davvero. Che è poi ciò che, alla fine, conta.
Avremmo dovuto guardarla anche con i suoi, di occhi.
La conclusione arriva, rendendoci anime in pena, vertiginosamente libere.
(E si è sempre un po' in pena, quando ci si vede costretti ad affrontare un cambiamento, sia esso voluto da nostre o altrui decisioni. Poi, mettici, che siamo molto bravi a complicarci la vita. Chè ci vogliamo tutti sguazzare un pochino, nella merda).
La vera sofferenza, dico, quella vera - non le lagne e i lamenti con i quali cerchiamo comprensione - sta nel difficile tentativo di liberarsi dalle richieste del nostro ego: di quel malsano e ipocrita senso di possesso verso l'altro da sè. Un senso invadente e arrogante di poter fare, di decidere, di volere, che, a ben vedere, non ci dovrebbe riguardare così tanto.
Diventa presto necessario mettersi da parte, arrivare alla consapevolezza di non essere più il centro nevralgico della vita di un altro, di non essere poi così importanti, così indispensabili, come ci eravamo illusi di essere. O che forse eravamo stati davvero. Un tempo, che non è più.
L'ego subisce così una enorme sconfitta, un declassamento, una umilizione e viene messo alla berlina di eventi che non può più controllare, facilitare o impedire. Non è più chiamato in causa. Non ha più voce in capitolo.
E non solo l'ego della vittima, anche quello del carnefice: nel momento in cui la vittima smette di fare la vittima anche di fronte a se stessa (e voglio supporre che succederà, per questione di amor proprio se non altro) anche il carnefice viene privato del proprio ruolo, all'apparenza più forte. Solo all'apparenza. E, con il passare del tempo, le due parti in causa arriveranno ad essere simili. Ad avere nostalgie, rimorsi, rimpianti. A ripensare ad errori, accuse, rivendicazioni. Entrambe.
Chè poi ci pensi a cos'è che hai sbagliato. A cos'è che non ha funzionato. Sia che tu abbia agito o subito l'azione di lasciare.
Il non possedere più fa soffrire (perchè prima, quando l'amore c'era, si era illusi di possedere qualcuno - cosa alquanto fantasiosa, infantile e ridicola). Non avere più potere. Non essere più cercati. Non avere più l'attenzione su di sè. Ci si sente privati. Disarmati. E' questo il vero punto. Perchè sì, mancheranno tante altre cose: l'affetto, la comprensione, la fiducia, il sesso, il sostegno, il confronto, lo scambio, la seduzione. Ma c'è quella cosa lì. E' quella che fa incazzare di più. Rimane incastrata nello sterno.
I due ruoli, quello di vittima e di carnefice, sono complementari ma hanno confini molto labili. Tendono ad interscambiarsi spesso. A confondersi, a provocarsi. Per vedersi in azione. Per sentirsi vivi.
Quante volte è capitato che i carnefici rivedessero le proprie posizioni, una volta realizzato che quelle che erano state le loro vittime (peraltro gli era pure toccato elaborare due o tre cosine, giusto giusto, a quelle poverette - chè magari 6 o 7 anni di storia ne porta via di roba con sè - ci vuole del tempo a catalogare tutto), lasciate sofferenti e indifese, stavano cercando di ricostruirsi una vita, di liberarsi dalla dipendenza emotiva da loro, bellamente mano nella mano con chicchessia, senza giustamente averli nemmeno in nota, quei poveri carnefici, che si ritrovano con le pive nel sacco?
A chi non è capitato di interpretare entrambi i ruoli alzi la mano.
Vedi?
E' incredibile quanto siano tutti così simili, sfuggenti, incomprensibili, inspiegabili, incoerenti, transitori, mutevoli, soggetti alle stesse leggi, alle stesse bassezze e agli stessi magistrali giri di valzer, i sentimenti di noi esseri umani.
Anyway.
C'è da ricordarsi che nessuno soffirà mai per te per troppo tempo. Per averti perso. Non crederti così indispensabile. Rimarranno solo bei ricordi, con il passare del tempo. In grado di farti sorridere, anche. Se lo vuoi. Se sai accettare che le cose cambiano. Che tutto cambia. Evolve. O se ne va. Se non era quello il suo posto. Per fare spazio a nuove cose, diverse forse. O forse simili.
Come, allo stesso modo, non soffrirai tu in eterno, per qualcuno che non è più al tuo fianco. A prescindere da chi ha deciso cosa. Non ha importanza.
L' amore si rigenera sempre.
Non è più possibile soffrire per amore, con questa elementare consapevolezza.
The show must go on.