“Come” a volte sia facile esagerare (dello scrittore Gianpietro Scalia)
Aveva gli occhi azzurri come il mare, quando in tempesta come un fuoco rosso si accende di luce come un tramonto, che dopo un pò svanisce come fosse una stella cadente.
Recentemente ho letto un romanzo che conosceranno in molti, avendo esso avuto un buon successo di pubblico.
Purtroppo, non sono riuscito a portarlo a termine: mi mancavano una manciata di pagine eppure non ci sono riuscito. E’ un peccato non terminare la lettura di un romanzo per poche pagine, così mi sono fatto raccontare in che modo finiva la storia, nonostante l’avessi già compreso da me. Avrei voluto semplicemente averne la certezza.
L’esperienza di lettura è stata traumatizzante per un semplice motivo, che travalica la storia narrata o le tematiche affrontate: l’incredibile e abusata ripetizione della particella comparativa “come“.
“Come” è per definizione un termine di paragone, e credo sia impossibile leggere un romanzo o esporre un discorso senza adoperararlo almeno qualche volta, ma ritengo sia necessaria a riguardo una riflessione.
Prendiamo spunto da un banale quanto diffuso esempio.
Il mare era piatto come una tavola.
Immaginiamo si tratti della frase di un romanzo. La frase completa sarebbe il “mare era piatto”. L’immaginazione del lettore dovrebbe di conseguenza condurlo ad immaginare “come” era piatto, e non certo la forzatura dello scrittore. Tutto ciò che viene dopo il “come” tenta di incanalare la fantasia del lettore sugli stessi binari della fantasia dello scrittore, con le inevitabili conseguenze di un appiattimento generale della fantasia collettiva (cosa voglia dire “fantasia collettiva” è un argomento che merita un discorso a parte, ma che molto si addice alla nostra società moderna).
Comunque, non vorrei adesso esasperare il discorso e mi limito ad affermare che, personalmente, ritengo vada bene se a volte si decidesse di adoperare un termine di paragone, soprattutto se questo termine avesse la capacità di evocare immagini poetiche o di grande effetto che dipingono la narrazione: i guerrieri discendevano il pendio come una mandria di lupi inferociti. Evoca la rabbia, l’istinto animale, la ferocia e il senso del tempo che scorre velocemente. Stimola, insomma, nel lettore un sentimento forte.
Eppure, anche in questi casi, un abuso potrebbe finire per disturbare la lettura. Questo è quanto è accaduto a me con il romanzo che ho citato all’inizio.
Mi sono allora cimentato in un esercizio, che si è reso possibile grazie all’esistenza del word processor, altrimenti ci sarebbe voluto un mese di tempo per realizzarlo.
Ho contato tutti i “come“, che erano più di duecento in circa centocinquanta pagine di narrazione.
Ho contato il numero di caratteri dell’intero romanzo.
Ho considerato che dopo ogni “come” dev’esserci per forza una frase, la quale è composta da un minimo di tre a un massimo di quindici parole, quindi con una media di trentacinque caratteri (stima molto al ribasso).
Sommando il tutto si deduce che una buona parte del romanzo è semplicemente ridondante (per non dire inutile) e ha il solo merito di distrarre dalla lettura.
Io non so se accade anche ad altri, ma mentre leggevo mi assaliva l’ansia del “come“.
Procedendo nella lettura l’ansia si è trasformata gradualmente in una sorta di nervosismo isterico e, infine, è diventato il solo motivo per il quale continuavo a leggere.
Attendevo con tanta trepidazione il prossimo “come” che nemmeno riuscivo a concentrarmi sulla trama ed anche i momenti più intensi o carichi di commozione mi suscitavano una sorta di ilarità: credo di avere letto la seconda parte del romanzo senza accorgermi realmente di cosa stessi leggendo.
Annoiatomi di questo gioco infantile ho tralasciato la lettura definitivamente.
È stato un peccato. Tutta colpa dell’editor, ho pensato, il quale non ha potuto non provare la mia stessa sensazione, o se non l’ha provata mi viene da pensare che si tratti di un editor quantomeno bizzarro.
Non so se chi dovesse leggere queste mie considerazioni abbia voglia di condividerle o criticarle. Non è importante in fondo, perchè la lettura è una esperienza personale. Ma probabilmente chi avrà letto queste mie considerazioni presterà in seguito maggiore attenzione all’uso del “come“, e magari si accorgerà quanto questo termine è abusato nella letteratura odierna e contribuisca spesso a degradare il valore di un romanzo.
Un’ultima cosa, che vorrei puntualizzare per tutti, ma soprattutto per Patrizia che mi ospita. Non è un bel pezzo quel che ho scritto e mi scuso in anticipo; ma è il primo che scrivo, e sono sicuro che col tempo migliorerò.
Come, non lo so…
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Ho voluto far precedere queste mie poche righe dall’articolo di Gianpietro in modo che la nuova rubrica che da oggi compare sul blog, Anatomia di un romanzo, si presentasse da sola, senza filtri ed intermediari.
Ho voluto che parlasse personalmente il pezzo e facesse comprendere ai lettori che seguono il blog con che cosa si confronteranno.
Sintesi e originalità, chiarezza e pragmaticità, saranno gli strumenti per un percorso nella lingua attraverso la lingua, attraverso il linguaggio con cui ogni lettore si confronta quando intraprende il viaggio tra le pagine di un libro.
Spunti di lettura sui generis che ci fornisce uno scrittore come Gianpietro Scalia, che ha all’attivo cinque romanzi, per grandi e piccoli, nonchè premi letterari quale il Premio internazionale di letteratura per ragazzi “Fondazione Cassa di Risparmio di Cento”, e che, schivo e riservato nel suo essere, ha scelto questo luogo ameno per dialogare e confrontarsi con il pubblico di lettori che ci segue, senza demagogia nè qualunquismo. Gianpietro è sì uno scrittore, ma prima di ciò è (un medico affermato e) un lettore onnivoro e da lettore, come tutti noi, parlerà dalle pagine di questo bel blog, che non si fa mancare niente.