Magazine Cinema

Anatre morte: Il ritorno di Dust

Creato il 14 marzo 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Anatre morte: Il ritorno di Dust

Da circa nove mesi sono scomparso. Ma questa rubrica non è morta, diciamo, piuttosto, che ha fatto la mia stessa fine. Dust, come la sorte che tocca a gran parte delle cose che compongono la nostra personale esistenza, si è cristallizzata, impietrita in un momento specifico, in quello che ora è divenuto un passato per me lontano. Come la polvere che lentamente si deposita creando strati su indisturbate superfici, è rimasta in attesa. Del resto tutto muore ma nulla scompare e a questo proposito voglio raccontarvi una storia. Non è la scena, un idea o la trama di un film, né l’incipit di un soggetto cinematografico ma un vecchio racconto, naturalmente western. Una storia diffusa, inizialmente dal suo stesso protagonista, David ‘Duck’ William, che scrisse quanto gli successe, giurando che fosse tutto vero. Io gli credo e poi non esiste storia che non sia al contempo bugia e verità.

Nell’autunno del 1866 Duck era un soldato semplice della XVIII fanteria, stanziata a Fort Phil Kearney nel Wyoming,  sotto il commando del colonnello Carrington. Pioveva solo quattro giorni all’anno in quel nulla sterminato intorno al forte e le temperature sfioravano i quarantotto gradi all’ombra, in un luogo in cui le ombre erano alla portata solo di serpenti, lucertole e scorpioni. Quel vasto lenzuolo di arida ostilità aveva inoltre da poco conosciuto il sapore del sangue. Un attacco Sioux su un distaccamento, durante un giro di perlustrazione, si era portato via le anime di ottantuno soldati. A pochi giorni da quell’avvenimento, Duck si trovava a farsi strada verso Fort CF Smith, sul Corno Grande, con dispacci di fondamentale importanza. Il paese pullulava di indiani ostili e Duck viaggiava esclusivamente di notte come meglio poteva, iniziando a cercare rifugio almeno un’ora prima dell’alba. Il sole significava una morte quasi certa. Si muoveva a piedi, armato di un fucile Henry, un pugno di munizioni e cibo e acqua per quattro giorni nella bisaccia. La luce della terza alba lo prese di sopravvento, avendo perso cognizione del tempo e si nascose in quello che, nella fuggente penombra, sembrava la stretta rientranza verso un canyon.

Quel corridoio roccioso conteneva molti grandi massi, staccati dalle pendici delle colline. Dietro una di queste si accovacciò, il capello appoggiato sulla cima di un artemisia tridentata, uno dei tanti minuscoli puntini  verdi che perforano la nuda e crudele superfice del culo del Wyoming.  Ci mise poco ad addormentarsi e sembrava che avesse appena chiuso gli occhi quando a mezzogiorno si rialzò di scatto. Forse per gli incubi che striscianti si allontanavano tra la polvere rossa o forse per il sonno ancora da recuperare, ma Duck si sentiva pervaso da elettrica anticipazione e ci mise qualche secondo per ristabilire il ritmo del fiato e del cuore. Allungò il braccio verso la borraccia e uno sparo di fucile squarciò il silenzio. Rimase fermo, immobile: il suo sguardo fisso, le labbra secche socchiuse, la mano rugosa aperta a pochi centimetri dal cinturino dalle borraccia. L’unica cosa a muoversi sembrava essere il rosso che striava il bianco dei suoi occhi. La polvere tornò al suo posto e l’eco si ammutolì lentamente. “Una banda d’indiani mi aveva seguito”, ricorda lo stesso Duck nel suo diario. “Ero circondato. Il colpo era stato sparato con mira esecrabile da uno di loro che mi intravedeva da un pendio su una collina sopra di me… sulla mia destra. Il fumo del suo fucile tradiva la sua postazione. Non ebbe il tempo di caricare che il suo corpo esanime già rotolava verso di me. Iniziai a correre verso l’uscita, dalla parte opposta da dove avevo fatto ingresso. Intorno a me una tempesta di pallottole. Quei nemici invisibili non si sono mossi, non hanno cercato di inseguirmi, cosa che, nonostante l’adrenalina e il piombo che cadeva intorno a me, trovai piuttosto strana, poiché avrebbero dovuto sapere dalle orme che li sotto c’ero solo io, c’era un uomo solo. La ragione per la loro inazione divenne immediatamente chiara. Non avevo fatto cento iarde che arrivai al limite della mia corsa: la testa del burrone che avevo preso per un canyon. Mi trovai dinanzi ad un petto concavo di roccia, quasi verticale e indigente di vegetazione. In questo cul-de-sac ero rinchiuso…preso come un orso in gabbia. Inseguirmi era inutile, dovevano solo aspettare. E così hanno fatto. Hanno aspettato per due giorni e per due notti. Io ero rintanato dietro una roccia sormontata da una crescita di Mesquite e con la scogliera di spunzoni rocciosi alle mie spalle, con la sofferente agonia della sete e assolutamente senza speranza di liberazione. La notte, non avevo certo il coraggio di addormentarmi e la mancanza di sonno era una tortura appassionata.

La mattina del terzo giorno decisi che sarebbe stato l’ultimo. Ricordo, piuttosto indistintamente, che nella mia disperazione e nel delirio saltai fuori allo scoperto e cominciai a sparare con il mio fucile a ripetizione senza vedere le piume di quei maledetti, senza mirare e urlando come la bestia infernale che ero divenuto. La cosa successiva che ricordo è  che uscii da un fiume al calar della notte. Non avevo uno straccio addosso e non sapevo nulla di com’ero giunto fin lì. Ma tutta la notte ho viaggiato, con la pelle così fredda che non sentivo la pressione delle mie dita su di essa e con i piedi doloranti. Allo spuntar del giorno mi trovai a Fort CF Smith, la mia destinazione, ma senza i miei dispacci. Il primo uomo che incontrai era un sergente di nome William Briscoe, che conoscevo molto bene. Potete immaginare il suo stupore nel vedermi in quelle condizioni e la mia alla sua richiesta di sapere chi diavolo fossi.”Dave William detto Duck,”, risposi, “chi dovrei essere?”. Lui mi fissò come un gufo. “Si, in effetti ci somigli, uomo”, disse, e notai che fece un passo indietro. “Come va?”, aggiunse, ma continuava ad indietreggiare con viso serio e guardandomi dritto negli occhi. Gli raccontai quello che mi era capitato il giorno prima e lui mi ascoltò, continuando a fissarmi con quegli occhi neri da gufo pronto per scendere in picchiata. “Mio caro amico, se sei Duck devo informarti che ti ho seppellito due mesi fa. Ti abbiamo trovato pieno di fori di proiettile, appena scalpato e con mutilazioni profonde su tutti e quattro gli arti. Temo inoltre che questo sia accaduto proprio dove dici di aver avuto la tua grande sparatoria. Vieni nella mia tenda e ti faccio vedere i tuoi vestiti e alcune lettere che ho preso dal corpo… scusami dal TUO corpo”. Mi ha mostrato l’abbigliamento bucherellato, che mi ha dato il permesso di mettere addosso, e le lettere. Mentre tenevo in mano quella di mia moglie, scomparsa tanti anni fa, sentivo il suo respiro profondo giudicarmi. Quando tentai di infilarla nella tasca dei pantaloni, la sua mano mi bloccò. “Questo no. Non la puoi prendere’”.  Poi mi ha portato dal comandante e dovetti ripetere a lui la mia storia. Finito, il suo unico commento fu un ordine diretto a Briscole di mettermi in cella, finche non mi sarei deciso a rivelare la mia reale identità. “Bill Briscoe, dimmi, hai davvero seppellito il cadavere che avete trovato?”,  gli chiesi fissando il vuoto. “Certo, e come ti ho detto, era Dave Williams, va bene? La maggior parte degli uomini conoscevano Duck e ora, maledetto impostore, è meglio che mi dici chi sei…”. Il mio responso fu il silenzio e nelle settimane a seguire continuai ad osservare quel silenzio, nella mia cella, guardato e indicato dai soldati di passaggio. Non ci volle molto prima di farmi il soprannome di Dead Duck. Anatra morta….

Un mese passò prima di riuscire a scappare dal corpo di guardia e raggiungere il Messico. Due volte sono ritornato oltre il confine alla ricerca di quel punto fatale tra le rocce, ma non sono riuscito mai a trovarlo….

Ecco tutti noi siamo stati il vecchio Duck e tutti noi ora siamo o diventeremo prima o poi, per un motivo o per un altro, dei Dead Ducks. Usando l’immaginario di questa leggenda, arrivata fino a noi nei decenni, si potrebbe dire che lì fuori ci sono mucchi di cadaveri in mezzo al deserto. Carcasse immobili come pelli di serpenti che ci siamo lasciati alle spalle, quando ci siamo andati a intrappolare in cunicoli senza uscita. E per quanto cerchiamo di tornare indietro, di trovare il punto in cui tutto è andato a puttane e siamo stati costretti ad uscire in un tripudio di piombo sparando a ripetizione, lì non ci torneremo più. I resti di noi stessi, non li troveremo più, mai più. Sono li, coperti da strati su strati di polvere in una landa che separa chi siamo stati da chi vogliamo diventare. Pochi possono dire “Sono qui“, poiché fin troppa  gente si addentra in quella landa cercandosi nel passato per potersi vedere nel futuro. Non è forse un caso che il cinema, più di qualsiasi altra arte, in primis, sembra unirci tutti. Il cinema non è forse un contenitore di fantasmi destinati a ripetere all’infinito gli stessi gesti, compressi in un spazio inesistente più simile a quella striscia di deserto piena di cadaveri nella nostra mente che al mondo reale? Nel caso poi del western si parla di fantasmi all’interno di un genere già di per sè morto, il che rende il tutto ancor più malinconicamente ironico.

La polvere si è sollevata e Dust quindi è pronto per cavalcare di nuovo insieme ai fantasmi di celluloide e lasciar perdere i cadaveri del passato. La vita è troppo breve per cercare quello che non si può trovare, c’è giusto-giusto il tempo per essere felici.

Primo numero di Dust:

È stato scelto come titolo di questa rubrica, Dust, la polvere rossa, gialla e sempre protagonista di ogni pellicola, al di sopra delle parti, che copre i volti sudati, che colora i vestiti e talvolta ricopre i cadaveri. Come cantò Leonard Cohen: “When it all comes down to dust I will kill you if I must.”

Eugenio Ercolani

 

La prossima settimana: Cat Ballou


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :