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Anch’io una volta avevo un jeans bianco

Creato il 10 ottobre 2011 da Postscriptum

Anch’io una volta avevo un jeans bianco

Signore e signori, si potrebbe gridare al miracolo, ma non lo faccio perché la cosa è troppo soggettiva. Sto parlando dell’ultimo album dei White Denim. Cosa? Chi sono i White Denim? Chi sono i White Denim? E avete il coraggio di pormi una simile domanda? Ah, questa davvero non me l’aspettavo da voi. Non Conoscete i White Denim???
E mancu ju, almeno fino a questa estate, quando mi è capitato di testare per la prima volta la presa usb della mia nuova autoradio. Mi spiego meglio: esiste una graduazione (semi-illegale) dell’ascolto di roba nuova, nelle mie consuetudini di fruitore assiduo di musica. Un primo ascolto si fa in mp3, e lì avviene la prima scrematura, chi sopravvive alla compressione del file, vede nei giorni seguenti la possibilità di essere ascoltato finalmente in un formato audio superiore. Infine, solo per gli eletti, si propone la possibilità di essere acquistati in cd. Ma qui, con “D”, ragazzi, a qualche mese di distanza, posso addirittura dire che devo acquistarlo in vinile!

Ovviamente la prima domanda che mi sono fatto è stata: “hey, e questi da dove spuntano?” Poi ho fatto una cosa che non si fa, ho scaricato tutti gli album precedenti, dal mulo. Ma è una cosa che non si fa e si deve demonizzare su internet! No, no, che schifo scaricare illegalmente, che schifo! Un po’ come le sigarette che, ormai è risaputo, non si devono fumare, nonnonnò! Perché? Perché fanno male, mi sembra chiaro! Come respirare l’aria delle città? Beh, forse un po’ meno, ma non divaghiamo! E comunque, sempre a beneficio mio e della Guardia di Finanza, credo sia utile aggiungere che ho cancellato quasi immediatamente gli mp3 in questione. Infatti non ne valeva la pena. I ragazzi sono all’opera appena dal 2008, come studio albums (già quattro), ma hanno operato un cambio di sonorità da Fits del 2009.

Ancor più sensibile è la mutazione con quest’ultimo D (toh, guarda caso la quarta lettera dell’alfabeto). Le sonorità sono così diverse, rispetto i precedenti, che al miracolo si può gridare solo in riferimento all’ultimo lavoro e spero vivamente che si continui su tale linea. Purtroppo D dura appena trentasette minuti, ma sono così intensi che non posso non tentare una similitudine con l’Egeo degli eroi ellenici. In entrambi, gli spazi sono così angusti che riesce difficile credere quante cose ci stanno in mezzo. E perdonatemi la rozzezza delle espressioni, ma stiamo entrando nel vivo di una discussione su quella che ritengo la più geniale tra le nuove band in giro per le strade del rock più colto. Due chitarre (Petralli, che canta e Jenkins, nuovo inserimento), batteria (l’ottimo Joshua Block) e basso (Steven Terebecki), attendo con impazienza l’inserimento di un hammond, che ben suonerebbe nel dontesto del piano dell’opera.

Il pezzo d’apertura, It’s Him (link), si apre con una schitarrata a mano aperta, molto indie, di quelle che mi fanno paura e che potrebbero insospettirmi. Ma è cosa di un attimo, perché una seconda chitarra si inserisce con un suono nasale, chiuso e pulito, che ricorda i grandi guitarmen degli anni ’70. Il pezzo, è molto psichedelico, area San Francisco. Ma vi è un qualcosa di strano che si sovrappone. Dal minuto 0.44 è chiaro, si tratta di inaspettate influenze tardo-radioheadiane, o comunque alternative in generale, che non tradiscono la giovane età di questo quartetto. Sono figli dei loro tempi e dunque non si costringono alla mera emulazione, come spesso accade di ascoltare in questi giorni. Il pezzo è esplosivo, muta in continuazione, fino alla fine, sembra quasi prog-southern rock. E in chiusura mi vengono in mente proprio gli Allman Brothers.

La cosa non è casuale e viene confermata dalla ancora più bella seconda traccia Burnished (link), tra le più interessanti dell’intero album. Il rock psichedelico degli anni 60 si accompagna al southern dei seventies in un continuo incontro tra Allman Brothers e Grateful Dead. La lunga improvvisazione che starebbe bene in chiusura di brano viene solamente accennata. Come a dire: “potevamo anche stupirvi con gli effetti speciali…ma non lo abbiamo fatto!”. Giusto o sbagliato che sia – e vi confesso che da chitarrista avrei voluto l’assolo – tutto viene accantonato appena inizia At The Farm (link). Grandiosa, da ascoltare assolutamente nella stupenda versione live (link). Non c’è dubbio, questa è una grande band. Siamo nuovamente in un area di prog-southern rock con momenti che ricordano l’Hendrix più ancestrale e mistico. Pezzo che ti fa spalancare la bocca per l’imprevedibilità delle svolte che prende nel corso dei suoi appena 3.58 di versione in studio.

Quarto brano, Street Joy (link), l’atmosfera si fa più malinconica e i riferimenti sono sempre gli stessi: area San Francisco, ma con lo sguardo al presente. Su Anvil Everything, quinto brano, c’è ben poco da dire (come per tutti gli altri, del resto). I White Denim sono così personali e diversi che una recensione attenta può solo elencare le influenze palpabili in superficie. Di questo brano si può dire che sembra un pezzo dei Grateful Dead cantato da Tom Yorke. Fidatevi, questi ragazzi, in concerto, saranno uno spettacolo, una vera goduria per chi suona uno strumento, qualunque esso sia.

Il pezzo numero sei, River To Consider (link), è uno di quei brani che non ti aspetteresti mai di trovare. Il pezzo più lungo dell’opera, ben cinque minuti: apre uno stralunato e virtuoso flauto degno del miglior Ian Anderson. Ma qui i Jethro Tull non c’entrano niente. Ritmi caraibici inaspettati cedono il posto, solo a metà brano, a sonorità anglosassoni da fine anni ’60. Il brano ben rispecchia i gusti e i riferimenti stilistici preferiti di James Petralli, la vera mente e deus ex machina della band: astrattismo, poesia e cultura avant-garde in generale. Il pezzo è dichiaratamente una divagazione su alcuni temi trattati da Wittgenstein nei suoi scritti. In effetti Petralli, alle lunghe narrazioni, preferisce il breve frammento evocativo. E dunque diviene facilmente comprensibile come Wittgenstein e l’importanza della singola parola, simbolo ed evocazione di qualcos’altro, divenga il tema portante dell’intero “D”. River To Consider, pur non essendo tra i brani indimenticabili dell’album, assume rilievo nel suo significato più intimo. Non c’è bisogno di aggiungere nient’altro sui testi dei White Denim, è chiaro che non si tratta di banalità buttate giù su di un foglio di carta per coprire il minutaggio ridondante delle basi musicali. E che comunque nulla sia ridondante in questo album, è più che percepibile. Con la traccia numero sette, Drug (link), il Texas viene trasferito direttamente in qualche contea nei pressi di Londra. Stupendo pezzo, con una sezione ritmica potente e misurata, spesso dai critici paragonata a quella degli Experience.

Bess St. (link) è un pezzo dei Led Zeppelin? No, no! Era solo l’intro, poi la storia cambia. Il brano è spedito e veloce come un rock-blues dei Moby Grape! Suona molto americano: country rock del nuovo millennio. Divertente e intelligente, sino al secondo minuto. Già, perché poi da quel momento si salta sulla sedia! Che cavolo di pezzo, gente! Avete mai pensato di poter coniugare gli Yes e i Soft Machine con i Quicksilver Messenger Service e i Grateful Dead? Questi lo hanno fatto! Ma, ripeto, tutto ciò con il piglio di chi sta facendo qualcosa di veramente nuovo, senza gli estremismi dell’emulazione pedissequa.

Il brano successivo Is and is and is continua da dove avevamo lasciato il pezzo precedente, cioè da quei riferimenti alla scena di Canterbury. Ma ci sono anche echi di Beatles, sembra persino di ascoltare il McCartney più incazzato (stile Helter Skelter o Why Don’t We Do It In the Road), quando la song esplode più rock che mai, al minuto e mezzo. Possente eppur poetica. In chiusura arriva troppo presto Keys (anche questa, come la precedente, non si trova sul tubo), mistura eterogenea di country-folk-rock in stile Byrds con reminiscenze dei Pink Floyd più eterei e bucolici. Forse non azzeccatissima, come pezzo di chiusura, troppo facilmente dimenticabile. Ma non si può pretendere la perfezione. D resta comunque un gran bell’album, forse un capolavoro dei nostri tempi, da avere in vinile e ascoltare con un buon pacchetto di sigarette per compagnia…ops, non si può dire? E allora fatevi un giro nei pressi del petrolchimico di Gela. Alla prossima…

Babar Da Celestropoli


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